La direzione del Pd sarà l’arena dove si annunciano (di nuovo) stracci che volano. Ma il copione è già bello che scritto sui giornali. La sinistra del partito, almeno quella parlamentare, voterà no al referendum costituzionale. I leader della minoranza Pierluigi Bersani e Roberto Speranza non hanno aspettato la riunione di lunedì dove si annuncia lo scontro finale in diretta tv sulle riforme. Hanno affidato le loro intenzioni ai giornali. Il primo al Corriere della Sera, il secondo a Repubblica. Il concetto è lo stesso: Renzi non cambia l’Italicum, il tempo è scaduto e questa riforma con questa legge elettorale non può essere votata. Ma come, rispondono i renziani, la direzione del Pd è proprio sulle modifiche all’Italicum. Ma ormai la strada della minoranza è segnata: “Con l’Italicum, il nostro voto è No” dice Speranza. Poche ore e il presidente-segretario risponde: “C’è chi fa politica per cambiare il paese e chi solo per attaccare gli altri – dichiara all’Arena, su Rai1 – Quando uno vota per antipatia è un elemento che dimostra una scarsa visione del paese”. E ricorda che “Bersani ha votato sì tre volte a questa riforma. Rispetto le opinioni di tutti, ma se Bersani cambia idea per il referendum, ciascuno si farà una sua opinione su questo”. D’altra parte, riflette il premier, non c’è sorpresa: “Nel Pd è un anno e mezzo che mi danno contro. Ma quando uno vota per antipatia mostra di avere scarsa visione per il paese”. “Così si lacera partito, è una scelta motivata da altro: andare contro Renzi” commenta il ministro della Cultura Dario Franceschini che chiede a Bersani di ripensarci. “Si sta utilizzando il referendum per altro – sottolinea l’ex segretario – ma per una battaglia politica legittima ci sono le elezioni politiche, per una battaglia dentro il Pd legittima c’è il congresso”.
Renzi ormai ha preso la residenza in TV. Proprio perché non vuole personalizzare il #referendum…
— Deborah Bergamini (@DeborahBergamin) 9 ottobre 2016
Lo strappo di Bersani e Speranza
Eccolo lo strappo, dunque, dopo mesi di incertezze. Anzi, come non si dimentica di ricordare Franceschini, pochi mesi dopo averla votata quella riforma, in Parlamento. Ma dalla minoranza rispondono che l’attesa è stata vana: l’Italicum è ancora così com’era. “Non sono disponibile a nuove meline e mediazioni al ribasso, si poteva fare molto per rimediare l’errore – dice Speranza a Repubblica – Lo chiediamo da mesi, appellandoci al dialogo. Purtroppo non si è fatto nulla”. La legge elettorale è la lex politica per eccellenza, esprime l’idea che abbiamo di democrazia, aggiunge il capo di Sinistra Riformista, una delle tre correnti di minoranza (le altre sono SinistraDem di Gianni Cuperlo e ReteDem di Sergio Lo Giudice). “Ora si dice ‘siamo disponibili a cambiare’ – prosegue Speranza – Ma vorrei ricordare tutta l’energia messa per l’Italicum. Nell’aprile del 2015 quando l’abbiamo approvato, 10 deputati sono stati sostituiti in commissione, il governo ha messo la fiducia, la terza volta in 150 anni, unici precedenti la legge truffa e la legge Acerbo sotto il fascismo. Noi non abbiamo votato la fiducia, io mi sono dimesso da capogruppo del Pd”. La direzione quindi è “l’ultima possibilità. Però non per annunci generici: il governo e la sua maggioranza hanno prodotto il disastro dell’Italicum, ora senza una loro vera iniziativa ogni mossa e invito al Parlamento, è una perdita di tempo”. E l’unico modo per smontare un meccanismo che per Speranza non va bene è “votare No” al referendum.
Bersani è meno netto, nel senso che lega tutta questa discussione su Italicum e referendum anche a come Matteo Renzi gestisce e fa vivere il partito. “Sono stato trattato come un rottame – dice al Corriere – Non ho ragioni per difendere D’Alema, ma deve esserci un limite a questa cosa volgare del vecchio e nuovo, che riguarda le idee e i protagonisti di una stagione. Nell’Ulivo c’erano anche idiosincrasie e liti furibonde, ma perbacco c’era una cosa da tenere assieme e c’era il rispetto, tanto che D’Alema propose Veltroni segretario e Prodi presidente della Commissione europea”. E anche per questo – del confronto dentro al partito – “se parlo fuori è perché nel Pd non si può. In un anno e mezzo non ho mai avuto occasione di discutere di riforme nel partito. E dire che un po’ ci capisco”. “Unico rammarico – commenta l’ex deputato del Pd Pippo Civati – Se ci avessero dato retta e se avessero votato contro in aula, semplicemente questa riforma non ci sarebbe. Ci saremmo risparmiati tutto questo. E anche il resto”.
Franceschini: “Cambiare l’Italicum”
Franceschini, che si dice “addolorato”, spera in un ripensamento prima della direzione. “C’è spazio – sostiene il ministro a L’Intervista su Sky Tg24 – per migliorare legge, il paese è tripolare e tutti devono avere un rappresentanza consentendo uno spazio più articolato per alleanze: anche nel nostro campo ci sono alcune forze al centro o a sinistra che non se la sentono di entrare nel Pd e uno spazio più articolato può essere utile”. Ma la speranza è flebile.
Basta vedere lo scambio su twitter tra il presidente del Pd Matteo Orfini e il senatore bersaniano Miguel Gotor. A Orfini che su facebook contestava alla minoranza l’annuncio del voto contrario al referendum il giorno prima della direzione, Gotor risponde: “Il presidente del Pd ne fa una questione di stile… In effetti lui è abituato a risolvere le questioni politiche dal notaio #bonton”. Il riferimento è alla vicenda dell’ex sindaco di Roma Ignazio Marino, con i 26 consiglieri Pd finiti dal notaio per costringere il primo cittadino alle dimissioni. La risposta di Orfini non si fa attendere: “Risposta che dimostra la mia tesi. Purtroppo”.
@GotorMiguel @pdnetwork @pbersani @robersperanza risposta che dimostra la mia tesi. Purtroppo
— orfini (@orfini) 9 ottobre 2016
Orfini: “Lavorano a una spaccatura”
Su facebook Orfini aveva scritto che “non è scandaloso che Bersani e Speranza votino No”, ma sulle riforme “è sbagliato che invece di cercare fino alla fine una soluzione si lavori per la spaccatura”. “Che senso ha chiedere di discutere se poi alla vigilia del confronto si grida che è tutto inutile? A che gioco stiamo giocando?” si chiede il presidente del partito. “A me – continua – hanno insegnato (Bersani, D’Alema e tanti altri) che delle assemblee di partito bisogna comunque aver rispetto, quando si sta in maggioranza e quando si sta in minoranza. Tanto che non parlo mai prima della direzione, non rilascio dichiarazioni entrando né faccio interviste il giorno prima. Se ho qualcosa da dire parlo lì. È una forma di rispetto per quell’organismo che simbolicamente rappresenta la nostra comunità. Questione di stile”.
Una partita che sempre di più si sovrappone con i destini del partito, per chi vuole un partito diverso. Come Michele Emiliano, possibile candidato alla guida del Pd. A differenza del suo collega Enrico Rossi – pure lui con l’ambizione da segretario – ha detto che questa riforma è “pessima e tecnicamente invotabile”. Ma si tira fuori dalla rissa: “Devo governare la Puglia”. Il tempo del congresso deve ancora arrivare.