Che spettacolo, se davvero fossero quello che tutti dicono. Da una parte il capo eterno della sinistra, soprattutto quando non è capo. Dall’altra l’erede inconfessato dell’ex arcinemico, Berlusconi. Che spettacolo: uno col sarcasmo britannico, una specie di finto-Churchill, che tifa Totti e va al mare in Puglia; e l’altro che se la cava, tra il battutismo pieraccionesco e i tentativi di deprezzare gli avversari, fregandoli come fa il suo mito Francis, nella House of cards. Entrambi volevano essere Blair (o Clinton o Obama, di sicuro non Zapatero). Da mesi si tirano addosso la Telecom e Banca Etruria, l’Eni e il Mossad. Ma anche il partito che uno usa come il tinello e l’altro non frequenta proprio più, la legge elettorale che uno ha fatto e l’altro invece no e la riforma che uno ha fatto con Berlusconi e l’altro quasi. Berlusconi che ha tradito l’uno e pure l’altro. E poi menzogne presunte, sgambetti, sputacchi, fanghiglia, storielle semplificate e quindi falsificate. Sempre più giù, finché si confonde chi è l’asino e chi il bue. “Renzi non ha capito che a questo giro D’Alema è lui” commentò l’ex ministro democristiano Gianfranco Rotondi un mesetto fa.
Renzi ha agganciato il Sì alla sua permanenza a Palazzo Chigi (poi un po’ c’ha ripensato e un po’ no) e manca solo che faccia l’uomo-sandwich perché non può contare né su altri partiti né sulla “società civile”. D’Alema invece, pattinando, ha sorpassato tutti – Grillo, professoroni, Zagrebelsky, partigiani – e in due mesi è diventato il leader del No. Uno fa il giro di tutte le tv, anche mini. L’altro fa il giro dei circoli e ritrova un po’ di quegli applausi che lo avevano abbandonato. D’Alema non è Bersani, niente mucche nel corridoio: “La Costituzione è una cosa seria. Io valuto il testo della riforma che, secondo me, è sbagliato. E quindi voto no“. Bersani non è stato capace di dirla così nemmeno nell’intervista nata apposta per dirlo.
D’Alema fa intendere che il partito non c’entra, c’entra solo la riforma. Ma non gli crede nessuno. Come un alligatore, tiene gli occhi a pelo d’acqua e appena finisce l’agitarsi un po’ goffo della minoranza nelle riunioni del Pd – poco più di un rumore di fondo – esce e spalanca le fauci: vi faccio vedere io come si fa, e vince per distacco. Lavora a Bruxelles, dice, si occupa di politica internazionale. “Quando torno in Italia parlerò della riforma, non di Renzi”. Secondo un conto approssimativo, negli ultimi due mesi D’Alema ha prodotto dichiarazioni su Renzi per un totale di 34 lanci dell’agenzia Ansa. Renzi dice: “Alcuni leader del passato vorrebbero fregarci il futuro continuando con le divisioni interne, le risse, le polemiche di tutti i giorni”. Infatti, secondo lo stesso calcolo alla meno peggio, Renzi negli ultimi due mesi ha dichiarato parole degne di essere rilanciate dall’Ansa per 28 volte. In tutto fa 62: di media, quindi, non c’è stato un giorno degli ultimi due mesi in cui l’uno non abbia parlato dell’altro. Nonostante nessuno dei due voglia un confronto diretto in tv, il duello è in corso da mesi, a ogni ora.
Renzi, dalla sua, ha un dettaglio: la storia degli ultimi vent’anni. Le sconfitte del centrosinistra, le occasioni mancate (le unioni civili, il conflitto d’interessi), le coalizioni da 13 partiti, i tradimenti fino alla soglia del Quirinale. Ha usato per anni D’Alema come anti-stress, spaventapasseri, babau, amuleto, totem all’incontrario. Una battuta su D’Alema come rito propiziatorio contro i fantasmi del passato. “Ora il Pd non è più di D’Alema, ma dei votanti” esultò dopo aver vinto le primarie. Più di Berlusconi, più di Cirino Pomicino, più di Craxi, D’Alema fa impennare l’adrenalina. Fino a perdere lucidità: “Se solo l’ex premier Massimo D’Alema non fosse così accecato dalla rabbia e dall’odio personale – ha messo per iscritto qualche giorno fa Luca Lotti, vicerenzi di Empoli – per non aver ottenuto la sua poltroncina di consolazione potrebbe agevolmente scoprire la realtà” .
Il linguaggio tra i contendenti è sempre stato quello, dall’inizio. Disse D’Alema di Renzi, nel 2010: “E’ sufficiente che un giovanotto dica che voglia cacciarci a calci in culo, che subito gli vengono concesse paginate e interviste”. Dopo quelle parole, il giovanotto avrebbe conquistato i vertici del partito, il governo, in generale il potere. Ora, però, Renzi si accorge che il grande bersaglio era stato abbattuto solo apparentemente, come i sacchi da boxe piantati a terra. Finora nell’arena di Renzi erano finite per essere divorate tutte le vittime sacrificali, sfide senza storia, Juve-Crotone. Prima Civati, poi Fassina, poi D’Attorre. Bersani, Cuperlo, Speranza parlano parlano e non succede mai nulla e Renzi passa sempre come De Gaulle sugli Champs-Elysee. Ripetono: “Nessuno di noi pensa che Renzi debba essere mandato a casa”. D’Alema invece no: assicura tra uno sbuffo e l’altro che se anche Renzi se ne va, il mondo continua, “dopo di lui non ci sarà il diluvio, semmai il buonsenso“. Anzi, che non ci crede nessuno che si dimette: “Bisognerebbe avere il physique du role“.
Massimo D’Alema ripete ogni settimana una frase a cui è affezionato da anni: “Io non ho mai dichiarato guerra a Renzi – scandì con quell’andamento lento, quest’estate – E’ stato Renzi che ha fatto delle guerre contro D’Alema una delle passioni della sua vita”. Lo dice quasi tutti i giorni da settimane, anzi lo dice tutti i mesi da anni. “Io non ho mai attaccato Renzi, era Renzi che attaccava me” ripeté anche dopo aver firmato l’armistizio a Palazzo Vecchio, 11 aprile 2013, in vista delle elezioni per il Quirinale. Una pace che durò come una tregua di Natale, il tempo di votare il Napolitano bis.
Si sono spesso sedotti, usati e abbandonati a vicenda, simulando rappacificazioni, reciproca stima. Quella volta del voto per il Colle, che travolse Prodi e Bersani. Poi, due mesi prima delle Europee del 40 per cento: Renzi volle presentare il libro di D’Alema. Quest’ultimo, per ricompensa, gli regalò la maglia di Totti. E infine l’ultimo avvicinamento, quando D’Alema andò a visitare il presidente del Consiglio a Palazzo Chigi, nelle settimane in cui l’Italia doveva indicare il rappresentante nel governo europeo di Juncker. “Dopo la Mogherini, c’è Massimo” assicurava Gianni Pittella. Ma la Mogherini la spuntò e “Massimo” aspettò qualche settimana, prima di sparare sulla vita “molto stentata” del Pd e i risultati “insoddisfacenti” del governo. Le repliche furono affidate ai cerchietti magici del capo del governo, i cui riverberi si ritrovano nell’avvelenata di Lotti. Si può usare la battuta con cui Ellekappa disegnò il rapporto tra D’Alema e Veltroni: “C’è grande sintonia tra i due: pensano esattamente le stesse cose, soprattutto l’uno dell’altro”. La differenza è che D’Alema e Renzi quelle cose non le pensano: le dicono.
Renzi scopre che la rottamazione non è mai finita. Non solo perché i vecchi, come dice D’Alema, in realtà “sono tutti sistemati”. Quel “no” esploso in faccia a una cronista che gli chiedeva un commento dopo il primo turno delle Comunali era un bluff, l’ennesimo: aveva capito tutto, si stava preparando a godersi lo spettacolo vero, i ballottaggi. Per questo trasforma il Fassina chi in Renzi chi: “Non c’è nessuna guerra, ma se ci fosse chi ha dichiarato guerra è Renzi, io non lo conoscevo neanche”.
E così a Renzi non resta niente. Il vocabolario sulla rottamazione – ragione sociale della sua azione politica – ripreso tra le mani, sembra improvvisamente logoro, le pagine strappate. Con D’Alema sembra un’arma spuntata: in passato è stato tutto – leader, premier, ministro – ma ora non ha poltrone da sfilargli via, non ha ruoli per i quali volere responsabilità, non ha cariche per ottenere lealtà. Sfugge. A Renzi non rimane che l’ironia, ma non è più Zalone, il nuovo, è Gigi e Andrea. “Io ho grande rispetto per D’Alema: quando può dare una mano non la fa mancare mettendosi dalla parte sbagliata”. Continua ad accomunare D’Alema e Berlusconi (“Si vogliono bene”), quando al Nazareno l’usciere del Cavaliere era Lorenzo Guerini. Renzi accusa l’altro di inconcludenza, di tradimento, anche con un po’ di irritazione: “D’Alema ha come obiettivo la distruzione di una persona e di un’esperienza, fa la sua battaglia. Auguri. D’Alema è un esperto di lotta fratricida in casa. Citofonare Romano Prodi e Walter Veltroni“.
E soprattutto l’incoerenza.”D’Alema nel ’95 scrive di superamento del bicameralismo perfetto…”. “La riforma del 2001 è stata proposta dal governo ed è passata per pochi voti: il primo firmatario era D’Alema”. “Alcuni leader del passato – conclude – vorrebbero fregarci il futuro”. Ma il risultato è che pare già un po’ in trappola, perché è lui a parlare di passato: il ’95, il 2001, la Bicamerale. “Renzi parla a nome di giovani ma loro votano M5s non lui – replica D’Alema – Lui ha governato il Paese due anni e siamo a sviluppo zero: difficile presentarsi come l’uomo del futuro“. Anzi, se c’è qualcuno che consegna il Paese a Grillo non è il referendum, “è Renzi” perché ha rotto “sentimentalmente con milioni di elettori di sinistra”
Da fuori, da lontano, mentre la minoranza supera le sue mille Waterloo, sfida e se ne frega dei rottamatori passati e futuri già pronti a obiettare che il suo tempo è scaduto. E’ qui che D’Alema prova lo sfondamento: “La vittoria del No – disse tempo fa – segnerà la fine dell’idea del partito di Renzi e del partito della Nazione, un’idea dannosa”. Serve “uno spazio di partecipazione e militanza del quale tornare a essere orgogliosi, uno spazio per i militanti di sinistra, di centrosinistra, cattolici e democratici. Noi vorremmo offrire un’occasione per ritrovarlo tutti insieme”. “Renzi attacca D’Alema pensando che funzioni come alle primarie – commentò tempo l’ex ministro democristiano Gianfranco Rotondi – Povero Matteo, non ha capito che a questo giro D’Alema è lui”.