Come ricorderanno le lettrici e i lettori, nell’estate 2014 lo Stato islamico (Is) passò come un’enorme pialla su campi, villaggi e persone della regione del Sinjar, nell’Iraq nord-occidentale. La comunità yazida fu presa sistematicamente e deliberatamente di mira. Erano kuffar, infedeli. Migliaia di yazidi furono catturati, centinaia di ragazzi e uomini adulti vennero massacrati e tanti altri minacciati di morte se non si fossero convertiti all’Islam.
Le ragazze e le donne yazide furono divise dai loro parenti e “regalate” o “vendute” ad altri combattenti dell’Is in Iraq e in Siria. Spesso furono oggetto di ripetuti scambi tra combattenti e stuprate, ripetutamente picchiate e sottoposte a ulteriori violenze, private del cibo e di altri beni essenziali e costrette a pulire, cucinare e fare altri lavori per i loro sequestratori. Le madri vennero separate dai figli più “grandi”: i bambini di età superiore a sette anni furono indottrinati e addestrati al combattimento, mentre bambine persino di nove anni entrarono nella “compravendita” delle schiave del sesso.
Ad agosto, una missione di ricerca di Amnesty International nel Kurdistan iracheno ha incontrato 18 ragazze e donne yazide catturate dall’Is e successivamente fuggite o rilasciate a seguito di un riscatto pagato dalle loro famiglie. Alcune di loro sono arrivate sull’orlo del suicidio o piangono il suicidio delle loro sorelle o delle loro figlie a causa della brutalità dei trattamenti subiti durante la prigionia. La sofferenza delle sopravvissute è acuita dalla condizione di miseria in cui vivono, dal dolore per i familiari uccisi dall’Is e dal timore per la sorte di quelli che sono ancora sotto sequestro.
Jamila (tutti i nomi delle persone citate sono di fantasia, per proteggere la loro incolumità), una ventenne di Sinjar rapita il 3 agosto 2014, ha raccontato ad Amnesty International di essere stata stuprata da almeno 10 uomini che la “compravano” l’uno dall’altro. A Mosul i combattenti dell’Is hanno obbligato lei e altre donne e ragazze a togliersi i vestiti e a “posare” per i fotografi prima di essere “vendute”. Ha provato a scappare due volte ma è stata nuovamente catturata. Per punizione è stata legata mani e piedi a un letto, sottoposta a stupro di gruppo, picchiata con dei cavi elettrici e privata del cibo. Nel dicembre 2015 la sua famiglia ha pagato un alto riscatto per riaverla libera.
Shinin, 32 anni, una madre di sei figli originaria di Tel Qasab – un villaggio del Sinjar occidentale – è stata catturata a Solakh il 3 agosto 2014 insieme a cinque dei suoi figli, il più piccolo dei quali solo di cinque anni.
“C’erano uomini di Daesh di ogni tipo e nazionalità: europei, arabi e persino curdi. Mi hanno separata dal figlio maschio maggiore di 10 anni e da due figlie, Nermeen di 11 anni e Seveh di 17, insieme a suo figlio”.
Seveh ha raccontato ad Amnesty International di essere stata scambiata tra sei diversi combattenti dell’Is in Iraq e in Siria prima di essere “rivenduta” alla famiglia, nel novembre 2015. Durante i 15 mesi di sequestro è stata ripetutamente picchiata e stuprata. Non è stato risparmiato dalle botte neanche il figlioletto di tre mesi. Periodicamente, li tenevano alla fame. Ha cercato tre volte di suicidarsi ma è stata scoperta e fermata dai suoi rapitori. L’incubo che ha passato continua ad avere conseguenze fisiche e psicologiche per Seveh, che è anche sconvolta per il suicidio di sua sorella Nermeen e per la sorte degli altri parenti scomparsi.
Nermeen è rimasta così traumatizzata dalla prigionia che si è data fuoco, all’età di 13 anni, all’interno di un prefabbricato del campo per profughi interni di Zakho, nel Kurdistan iracheno. Dopo tre giorni di agonia in ospedale è morta.
“In ospedale, le ho chiesto perché l’avesse fatto e mi ha risposto che non ne poteva più. Era in pena, piangeva in ogni momento” – ha raccontato la madre Shirin, aggiungendo che la famiglia aveva chiesto più volte che Nermeen potesse riceve cure specialistiche all’estero.
La maggior parte delle centinaia di ragazze e donne yazide che sono riuscite a scappare dalla prigionia dell’Is vivono in condizioni terribili, con parenti poveri sfollati dalle loro case o nei campi per profughi interni del Kurdistan iracheno. Il sostegno disponibile è del tutto inadeguato alle loro necessità. Oltre a dover affrontare da sole il trauma, molte sopravvissute devono rimborsare somme ingenti, spesso equivalenti a decine di migliaia di euro, prese in prestito per pagare i riscatti dei loro familiari.
Purtroppo non esiste un sistema unificato per valutare e rispondere alle necessità delle sopravvissute alla prigionia dell’Is e la maggior parte di loro deve fare affidamento sulle reti familiari e comunitarie per andare avanti. L’assistenza umanitaria fornita da alcuni governi, dalle organizzazioni non governative e dalle agenzie delle Nazioni Unite è insufficiente e di qualità variabile. L’unico programma degno di essere menzionato è quello finanziato dal governo tedesco, grazie al quale 1800 yazide sono arrivate in Germania per ricevere cure specialistiche.
Le possibilità delle sopravvissute di accedere ai servizi fondamentali e di muoversi liberamente sono spesso compromesse dalla burocrazia irachena: per molte di loro è complicato ottenere carte d’identità e documenti per viaggiare, andati persi quando l’Is ha attaccato la regione del Sinjar. Sebbene il numero delle sopravvissute disposte a raccontare la loro esperienza sia aumentato grazie al grande numero di persone che sono riuscite a scappare dalla prigionia, restano diffusi lo stigma e la paura di giudizi negativi così le incognite su un futuro, possibile matrimonio.
Finora, nessuno in Iraq è stato indagato o processato per i crimini commessi contro la comunità yazida. I pochi processi nei confronti di persone sospettate di aver commesso reati per conto dell’Is non hanno aiutato a stabilire la verità o a fornire giustizia e riparazione alle vittime e alle sopravvissute. E non è finita. Secondo fonti locali, circa 3800 donne e bambini della comunità yazida sarebbero ancora nelle mani dell’Is. Il destino di centinaia di uomini catturati rimane ignoto e si teme che la maggior parte di loro sia morta.