Daniel Blake chi? Arriva in sala dal 21 ottobre 2016 il 25esimo film di Ken Loach. Distribuito dall’agguerrita Cinema SRL di Valerio De Paolis, Io, Daniel Blake, palma d’Oro all’ultimo Festival di Cannes, è ancora una volta il necessario, durissimo e tragico film firmato Loach che getta il suo consolidato sguardo composto e dignitoso sugli sfruttati del pianeta Terra. Qui è il turno del falegname 59enne Daniel Blake, vittima di una seria crisi cardiaca. Il medico che gli proibisce di lavorare, l’attesa per farsi approvare la richiesta di indennità di malattia, le incredibili incongruenze burocratiche che lo spingono a cercare lavoro pena l’ennesima sanzione, sono gli amari tasselli dell’odissea di un altro “ultimo” loachiano. L’assurda ed improvvisa quotidianità che è costretto a vivere Daniel è lo stesso sprofondo illogico ed ingiusto che hanno vissuto il Joe Kavanagh di My name is Joe, Bob e Tommy di Piovono pietre, i Navigators Paul, Mick e John. Loach ama e stringe a sé i suoi personaggi inconsapevoli ed onesti, mai stupidi o sciocchi, anche se sempre molto pop, gente semplice che magari si lascia andare e beve qualche birretta o scanchera con una parolaccia di troppo. Gli uomini della strada, la gente comune, il popolo, quella working class british poi moltiplicata da Loach in diverse angolazioni geografiche e storiche come ne La canzone di Carla, Bread and roses, Jimmy’s Hall, ecc.. Appunto, dicevamo del popolo. E la domanda oggi, dopo che il paradigma Loach, concettualmente identico a se stesso in quarant’anni di cinema tenacemente rigoroso nel messaggio e nella rappresentazione degli ultimi, forse un po’ tirato via formalmente in qualche titolo (Un bacio appassionato, La parte degli angeli), ha comunque mostrato tutto il suo potenziale, ecco ma quel popolo che Loach ha voluto abilmente “drammatizzare”, i suoi film li va a vedere al cinema? Gli “operai” del nuovo secolo (sempre che abbiano ancora i connotati naif e culturalmente anarcoidi come nei film di Loach) vanno a spendere otto euro per Io, Daniel Blake, facendo come propria quella voce condannata al sopruso e alla dannazione terrena dei protagonisti? Insomma la rappresentazione dello sfruttamento è vista dagli sfruttati?
Perché l’impressione è quella che oramai a vedere i film di Loach ci vada un pubblico borghese, sazio e appagato economicamente, anagraficamente ultra50enne, progressista per diletto e bisognoso di indignarsi un tanto al chilo vedendo chi sta peggio. Un po’ come raccontano gli ErosAntEros, in un bello spettacolo teatrale in questi giorni al festival VIE intitolato Allarmi!, con quell’inquadratura spiazzante, scavalcamento di campo televisivo, che mostra il pubblico del teatro illuminato a giorno entusiasta ad ascoltare le solite bubbole dell’arte politicamente impegnata. Per questo veniamo al punto e ci chiediamo: il cinema di Loach, che è politico, pedagogico, che esiste per cambiare (marxianamente) l’ordine delle cose, quando quel tipo di pubblico a cui si vuol riferire, per illuminarlo, per dargli coscienza, per “drammatizzarlo”, non lo guarda più (o meglio non viene visto dalle nuove generazioni di sfruttati) che senso assumono i suoi film? Non è necessario portare i film nelle periferie, un po’ come Veltroni tentò fallendo nel paracadutare Di Caprio a Tor Bella Monaca nel 2006, anche perché a “parlare” alle classi operaie ammassate nei palazzoni che Loach mostra di continuo, dove comunque la solidarietà tra disperati non cessa di esistere, ci sono già le multisale con una formula standard dove Io, Daniel Blake non entra. Il problema è proprio lo squilibrio dei piani di comunicazione tra film e spettatore. Così che il disperato e fiero realismo degli ultimi raccontato da Loach che rimane nelle sale d’essai del centro, che finisce per essere discussione accigliata da salotto, che significato assume oggi? Se non volesse dire politicamente più nulla, per nonno Ken ci dispiacerebbe assai.