Femminicidio, molestie sessuali, stipendi più bassi, minor riconoscimento sociale, condizioni di lavoro che spesso rasentano la schiavitù, il non avere il diritto ad un aborto sicuro e legale: la violenza contro le donne ha tante facce in America Latina, che sono tutte il rovescio del maschilismo connaturato e pervasivo della sua società. E il 19 ottobre, dall’Obelisco di Buenos Aires alla Moneda di Santiago del Cile, dall’Uruguay alla Bolivia al Messico, fino a Usa, Francia e Spagna, un’onda nera di donne vestite a lutto è scesa in piazza e nelle strade per protestare e dire basta. La ‘miccia’ è stato il brutale femminicidio della sedicenne Lucia Peres, avvenuto lo scorso 8 ottobre a Mar del Plata (la Rimini argentina), dove è stata stuprata, bruciata, impalata e uccisa. Non è stata la prima protesta contro la violenza alle donne in America Latina, ma la più massiccia, e che ha visto anche la partecipazione di uomini e giovani, come rileva Carmen Andrade, direttrice dell’Ufficio delle pari opportunità dell’Università del Cile, nonché ex ministra del Servizio nazionale della donna.
“Per molti anni noi donne, in America Latina – spiega al fattoquotidiano.it – siamo scese in piazza a protestare contro la violenza, anche con azioni articolate e collegate in più paesi del continente. Quello che è nuovo ora è l’imponenza della manifestazione, che se non è stata la più massiccia, sicuramente è tra le maggiori, anche per la brutalità dell’omicidio, e la partecipazione di molti giovani e di uomini”. Un punto questo su cui all’inizio c’era stata la protesta di diversi collettivi e associazioni femministe in Argentina, che hanno accusato gli uomini di protagonismo e di voler invadere uno spazio femminile. “Che cosa non hanno capito sullo sciopero e la mobilitazione delle donne? Vogliono accompagnarci? Che cambino i loro privilegi storici, ma davvero, in uno spazio dove non ci siano telecamere”, aveva detto Julieta Saulo, coordinatrice del collettivo femminista Las Casildas. Ma le organizzatrici di #niunamenos hanno gettato acqua sul fuoco, e Florencia Abbate, referente del gruppo, ha chiarito che “lo sciopero è solo per le donne, una forma di mostrare che le cose, senza di noi, non funzionano. Però se gli uomini vogliono partecipare alla marcia va bene. Molti sono preoccupati, e non è ipocrisia”. Ad esempio ha avuto molto risalto sui social la lettera di un padre cileno, Danilo Canales, diventato “femminista dopo essere diventato padre di una figlia femmina”.
Tutto ciò è “indicativo che il tema della violenza alle donne – continua Andrade – non è più solo dei gruppi femministi storici, ma è importante anche per le nuove generazioni. Credo che ci siano buone possibilità che la lotta prosegua”. E i fronti su cui bisognerà agire sono principalmente due, secondo l’esperta: leggi e programmi contro la violenza alle donne a 360 gradi, e fine dell’impunità per aggressori e assassini. Attualmente infatti, secondo i dati dell’Onu, il 98% degli omicidi di donne, per diverse ragioni, finiscono impuniti. E i crimini di questo tipo sono tanti. Dei 25 paesi del mondo con il tasso più alto di femminicidi, 14 sono latinoamericani e dei Caraibi, con El Salvador, Honduras e Guatemala in testa, secondo le cifre del Cepal (Commissione economica di America latina e Caraibi). Nel 2014 almeno 1.678 donne sono state uccise per ragioni di genere in questi paesi. A livello legislativo, 20 paesi latini hanno leggi sulla violenza contro le donne, ma solo otto assegnano risorse finalizzate nella legge di bilancio. Sono 14 invece i paesi che hanno definito il delitto di femminicidio (Bolivia, Brasile, Cile, Colombia, Costa Rica, Ecuador, El Salvador, Guatemala, Honduras, Messico, Nicaragua, Panama, Perú e Repubblica Dominicana), mentre Argentina e Venezuela hanno la figura dell’omicidio aggravato da motivi di genere. “In tutti i paesi dell’America Latina – conclude Andrade – si sono fatte leggi contro la violenza femminile, però nel contesto familiare. Sono state fatte negli ’90, quando non c’erano le condizioni politiche e culturali per provvedimenti più integrati”. Adesso c’è forse lo spazio per andare oltre, ma “sicuramente vanno applicate meglio anche le leggi che ci sono. Molte delle vittime di femminicidio avevano denunciato le violenze, eppure la polizia e il potere giudiziario non sono state in grado di proteggerle. Così come non hanno parlato i loro vicini che le sentivano gridare o le maestre dei loro figli”. C’è ancora un gran lavoro culturale da fare, oltre che legislativo.