“La maggior parte delle banche internazionali ha creato gruppi di lavoro che stanno valutando quali operazioni dovranno essere trasferite, in modo da garantire i propri impegni con i clienti, quando farlo e come. Le loro mani fremono sul tasto del trasferimento. Molte banche piccole hanno pianificato di avviare le procedure entro Natale: altre più grandi dovrebbero iniziare nei primi mesi del 2017”. Parola di Anthony Browne, chief executive della British Banking Association, la maggiore associazione di lobbysti del settore bancario nel Regno Unito, con soci come Barclays, NatWest e Santander.
In un articolo a sua firma sull’Observer, Browne avverte che il clima fra i banchieri è tetro. A preoccuparli è la persistente incertezza sul mantenimento dei passporting rights – letteralmente “i diritti di passaporto” – cioè la possibilità, per società di servizi finanziari (banche ma anche fondi di investimento e compagnie assicurative) di condurre le loro attività negli altri paesi europei riducendo al minimo le formalità e, soprattutto, senza bisogno di ottenere l‘autorizzazione ad operare dal singolo stato membro. Secondo i pareri raccolti alla conferenza annuale del settore bancario, l’ostacolo sarebbe politico.
“Colleghi di banche europee concordano sul fatto che, nel settore dei servizi finanziari, è vitale mantenere un mercato integrato e che non farlo sarebbe autodistruttivo. Lo pensano anche le autorità regolatrici di Regno Unito ed Unione Europea. Se la trattativa venisse lasciata a loro, avremmo una soluzione rapida e razionale. Ma la politica sta trionfando sull’economia e saranno i politici a decidere”.
E il governo May non sembra affatto simpatizzare con le richieste della City. Sono lontani i tempi del governo Cameron, quando i banchieri avevano nel primo ministro e nel ministro dell’Economia George Osborne due interlocutori sempre in ascolto. Dal giorno dopo la vittoria del sì, i servizi finanziari hanno cercato insistentemente un dialogo con il governo, scontrandosi con due ostacoli: impreparazione della pubblica amministrazione e l’ostilità di almeno due dei ministri deputati a gestire la Brexit: David Davis, ministro per la Brexit, e Liam Fox responsabile del Commercio Internazionale.
L’unico referente politico aperto al dialogo, il ministro dell’Economia Philip Hammond, ha rapidamente perso terreno negli equilibri interni al governo e non appare abbastanza forte per imporre la sua visione prudente e moderata. Secondo diverse fonti giornalistiche, nelle ultime settimane i rapporti si sarebbero deteriorati al punto che i rappresentanti degli istituti più importanti, pur partecipando agli incontri con il governo, avrebbero smesso di offrire il loro contributo. Nel frattempo, la linea politica del governo May si è andata definendo su linee populiste e fortemente anti elitarie.
Nel suo discorso di chiusura del congresso dei Tories, lo scorso 5 ottobre, il primo ministro ha dichiarato: “Oggi, troppe persone in posizioni di potere si comportano come se avessero più cose in comune con le èlite internazionali che con la gente comune, i loro impiegati, i passanti. Ma chi pensa di essere un cittadino del mondo è un cittadino di nessun luogo. Non può il senso profondo della parola “cittadinanza”. E quindi, ai manager che guadagnano una fortuna ma non si preoccupano dei loro collaboratori. Alle multinazionali che trattano gli obblighi fiscali come degli optional. Al direttore che intasca enormi dividendi pur sapendo che le pensioni aziendali stanno per saltare. Vi avverto. Non potete continuare così”.
Una dichiarazione di guerra culturale, prima ancora che economica. A cui i mercati avrebbero reagito svalutando pesantemente la sterlina. È la tesi di David Bloom, Global Head of FX Strategy di HSBC, intervistato qualche giorno fa dal Financial Times, il quotidiano che più di tutti interpreta gli umori della City. A una domanda sulle ragioni del crollo della sterlina, Bloom ha risposto: “Prima avevamo i bond vigilantes. Un collettivo che puniva i governi occidentali alzando il rendimento delle obbligazioni quando non era d’accordo con certe scelte politiche. Questo aiutava a tenere sotto controllo le ambizioni fiscali dei governi. Ma il quantitative easing ha ucciso il meccanismo. Ora a reagire sono quelli che chiamiamo “FX vigilantes”, i vigilanti del mercato valutario. Al FX nel suo complesso non piace qualcosa e vendono. Questo ha un impatto sui politici, che riconsiderano certe decisioni.
La sterlina è sempre stata una valuta relativamente semplice, una cyclical currency, che reagiva ad eventi e dati, con un valore fra 1.55 e 1.65. Ma ora è una valuta politica e strutturale, la valuta di un paese con deficit commerciale e fiscale fra i maggiori al mondo. Al Foreign Exchange non sono piaciuti i recenti annunci del governo e ha venduto. La valuta è, al momento, l’opposizione officiale de facto alle politiche governative”.
Un messaggio che non sembra avere avuto effetti su Theresa May, che proprio giovedì, nella prima tornata di meeting con le istituzioni europee a Bruxelles, è apparsa ferma su posizioni poco concilianti, tanto da suscitare la dura reazione delle controparti. È quindi possibile che le banche abbiano deciso di accelerare i propri piani di trasferimento, ma restano molti dubbi sulla realizzabilità di questi piani. Rappresentanti di città europee come Parigi, Francoforte, Madrid, Amsterdam, Zurigo o Dublino stanno corteggiando da mesi la City, ma nessuna sembra potere offrire le stesse caratteristiche di Londra in termini di lingua, disponibilità di uffici e case per il personale, infrastrutture.
I costi di un trasferimento in massa delle attività e del personale sarebbero poi altissimi, specie in un momento in cui i profitti del settore finanziario si vanno assottigliando. Secondo i calcoli di Francesco Guerrera – associate Editor e Chief Financial Correspondent di Politico.eu – per molte banche lasciare Londra spazzerebbe via l’equivalente di un anno di profitti sul mercato europeo. Le prospettive quindi non sono apocalittiche. Nessuno si aspetta che la finanza lasci Londra in blocco, ma gli scenari potrebbero essere due. Il primo che le banche americane potrebbero decidere di tagliare alcune operazioni e spostare il grosso dell’attività a New York, il secondo che altri gruppi potrebbero decidere di potenziare i loro uffici europei riducendo attività e personale londinese. In questo caso, al personale verrebbe offerta l’opzione di trasferirsi o licenziarsi. In entrambi i casi, Londra soffrirebbe la perdita di decine di migliaia di posti di lavoro nel settore finanziario e vedrebbe compromesso il suo ruolo di centro finanziario mondiale.