Non basta un voto al referendum per lasciare l’Unione europea, la democrazia rappresentativa faticosamente costruita al prezzo di tanti sacrifici si sta rivelando più solida delle ondate di populismo irresponsabile che la colpiscono. Il governo inglese non può decidere da solo di attivare l’articolo 50 del trattato che regola il rapporto con l’Unione e avviare il negoziato per il distacco, deve passare dal Parlamento. Lo ha stabilito ieri la High Court inglese, sopra la quale c’è soltanto la Corte suprema, alla quale il governo ha già fatto ricorso (ci sarebbe anche la Court of Appeal, ma il caso finirà direttamente alla Supreme Court).
La conseguenza più immediata è che sembra ormai impossibile che il premier Theresa May possa attivare l’articolo 50 a marzo 2017, ma le implicazioni sono molto più profonde: la decisione della High Court ha ridimensionato il voto del 23 giugno a quello che era in origine, un referendum consultivo ma non vincolante. Perché la sovranità è una cosa seria e le regole che si sono stratificate nei secoli l’hanno affidata al popolo ma perché la eserciti rispettando forme e limiti che esso stesso si è dato per evitare abusi, così da scongiurare la degenerazione del voto nella dittatura della maggioranza o nel plebiscito.
La sentenza della High Court è un’utile lettura anche per quegli irresponsabili profeti della sovranità che evocano strappi, rotture drastiche con l’Unione o con qualunque altra forma di collaborazione sovranazionale in nome di una restituzione di potere al popolo di cui, abusivamente, si professano unici difensori. Il verdetto, esito del ricorso promosso dall’operatrice finanziaria Gina Miller, stabilisce alcuni punti fermi che dovrebbero essere ben presenti a tutti nei dibattiti intorno all’euro e all’Unione perché non si applicano soltanto alla Gran Bretagna.
Primo: in Gran Bretagna il Parlamento è sovrano e può “fare e disfare” le leggi. Anni di lotte e gloriose rivoluzioni hanno stabilito che “la Corona, cioè il governo di oggi, non può scavalcare la legislazione del Parlamento usando le proprie prerogative”. Il potere legislativo e il potere esecutivo sono separati. Certo, il governo può condurre la politica estera e firmare trattati, ma soltanto finché non hanno ripercussioni interne. Visto che attivare l’articolo 50 porta a disapplicare 40 anni di legislazione europea e di leggi nazionali che l’hanno attuata, molti diritti garantiti da questa infrastruttura normativa andrebbero persi. E questo può deciderlo soltanto il potere legislativo, non quello esecutivo.
L’argomento del governo, che quando il Parlamento ha approvato l’ingresso nella Comunità europea nel 1972 ha implicitamente anche autorizzato il governo a usare l’articolo 50 per uscirne, non può essere accolto, dice la High Court. “Non c’è nulla nel testo dello European Communities Act del 1972 che sostenga” questa tesi che, comunque, è contraria “ai principi fondamentali della sovranità del Parlamento”.
Ci sono molte implicazioni di questa decisione (vedremo se sarà confermata dalla Corte suprema). La Brexit non è più certa. Il dibattito si riapre e si sposta là dove avrebbe sempre dovuto rimanere, in Parlamento. La nostra Costituzione, saggiamente, vieta i referendum sui trattati internazionali la cui ratifica è affidata all’approfondimento e alla valutazione ponderata che solo il dibattito parlamentare può garantire, libero dalla trappola binaria della scelta tra Sì e No. Se una maggioranza di parlamentari decidesse di opporsi all’uscita dall’Unione, questo non solo sarebbe pienamente lecito, ma anche nello spirito della Costituzione. Se poi si andasse alle elezioni e vincesse le elezioni un partito – o gli stessi conservatori o i laburisti – con una linea anti-Brexit, anche in questo caso la Gran Bretagna potrebbe rimanere nell’Unione senza tradire la propria storia e la propria Costituzione che valgono molto di più di un voto non vincolante basato su informazioni in gran parte false e su argomenti assai poco pertinenti (immigrati, delocalizzazioni industriali ecc.). Se invece i politici inglesi opteranno per la Brexit, dovranno farlo assumendosene pienamente la responsabilità, davanti agli elettori e alla Storia, senza potersi più presentare come meri esecutori di una volontà sacra e inviolabile espressa una volta per tutte nelle urne del 23 giugno. La scelta è tutta loro.
Nella guerra tra democrazia e populismo, la prima ha segnato un punto. Non decisivo. Ma importante. Ne tengano conto anche tutti quei capi di governo o membri di Parlamenti che stanno cercando di usare la scorciatoia referendaria per giustificare decisioni che non hanno il coraggio di prendere in autonomia, dalla politica commerciale (vedi caso Vallonia) alla gestione dell’immigrazione (Ungheria) o dei rapporti internazionali (l’Olanda sul trattato con l’Ucraina).
Stefano Feltri
Giornalista
Zonaeuro - 3 Novembre 2016
Brexit, il bello della democrazia rappresentativa
Non basta un voto al referendum per lasciare l’Unione europea, la democrazia rappresentativa faticosamente costruita al prezzo di tanti sacrifici si sta rivelando più solida delle ondate di populismo irresponsabile che la colpiscono. Il governo inglese non può decidere da solo di attivare l’articolo 50 del trattato che regola il rapporto con l’Unione e avviare il negoziato per il distacco, deve passare dal Parlamento. Lo ha stabilito ieri la High Court inglese, sopra la quale c’è soltanto la Corte suprema, alla quale il governo ha già fatto ricorso (ci sarebbe anche la Court of Appeal, ma il caso finirà direttamente alla Supreme Court).
La conseguenza più immediata è che sembra ormai impossibile che il premier Theresa May possa attivare l’articolo 50 a marzo 2017, ma le implicazioni sono molto più profonde: la decisione della High Court ha ridimensionato il voto del 23 giugno a quello che era in origine, un referendum consultivo ma non vincolante. Perché la sovranità è una cosa seria e le regole che si sono stratificate nei secoli l’hanno affidata al popolo ma perché la eserciti rispettando forme e limiti che esso stesso si è dato per evitare abusi, così da scongiurare la degenerazione del voto nella dittatura della maggioranza o nel plebiscito.
La sentenza della High Court è un’utile lettura anche per quegli irresponsabili profeti della sovranità che evocano strappi, rotture drastiche con l’Unione o con qualunque altra forma di collaborazione sovranazionale in nome di una restituzione di potere al popolo di cui, abusivamente, si professano unici difensori. Il verdetto, esito del ricorso promosso dall’operatrice finanziaria Gina Miller, stabilisce alcuni punti fermi che dovrebbero essere ben presenti a tutti nei dibattiti intorno all’euro e all’Unione perché non si applicano soltanto alla Gran Bretagna.
Primo: in Gran Bretagna il Parlamento è sovrano e può “fare e disfare” le leggi. Anni di lotte e gloriose rivoluzioni hanno stabilito che “la Corona, cioè il governo di oggi, non può scavalcare la legislazione del Parlamento usando le proprie prerogative”. Il potere legislativo e il potere esecutivo sono separati. Certo, il governo può condurre la politica estera e firmare trattati, ma soltanto finché non hanno ripercussioni interne. Visto che attivare l’articolo 50 porta a disapplicare 40 anni di legislazione europea e di leggi nazionali che l’hanno attuata, molti diritti garantiti da questa infrastruttura normativa andrebbero persi. E questo può deciderlo soltanto il potere legislativo, non quello esecutivo.
L’argomento del governo, che quando il Parlamento ha approvato l’ingresso nella Comunità europea nel 1972 ha implicitamente anche autorizzato il governo a usare l’articolo 50 per uscirne, non può essere accolto, dice la High Court. “Non c’è nulla nel testo dello European Communities Act del 1972 che sostenga” questa tesi che, comunque, è contraria “ai principi fondamentali della sovranità del Parlamento”.
Ci sono molte implicazioni di questa decisione (vedremo se sarà confermata dalla Corte suprema). La Brexit non è più certa. Il dibattito si riapre e si sposta là dove avrebbe sempre dovuto rimanere, in Parlamento. La nostra Costituzione, saggiamente, vieta i referendum sui trattati internazionali la cui ratifica è affidata all’approfondimento e alla valutazione ponderata che solo il dibattito parlamentare può garantire, libero dalla trappola binaria della scelta tra Sì e No. Se una maggioranza di parlamentari decidesse di opporsi all’uscita dall’Unione, questo non solo sarebbe pienamente lecito, ma anche nello spirito della Costituzione. Se poi si andasse alle elezioni e vincesse le elezioni un partito – o gli stessi conservatori o i laburisti – con una linea anti-Brexit, anche in questo caso la Gran Bretagna potrebbe rimanere nell’Unione senza tradire la propria storia e la propria Costituzione che valgono molto di più di un voto non vincolante basato su informazioni in gran parte false e su argomenti assai poco pertinenti (immigrati, delocalizzazioni industriali ecc.). Se invece i politici inglesi opteranno per la Brexit, dovranno farlo assumendosene pienamente la responsabilità, davanti agli elettori e alla Storia, senza potersi più presentare come meri esecutori di una volontà sacra e inviolabile espressa una volta per tutte nelle urne del 23 giugno. La scelta è tutta loro.
Nella guerra tra democrazia e populismo, la prima ha segnato un punto. Non decisivo. Ma importante. Ne tengano conto anche tutti quei capi di governo o membri di Parlamenti che stanno cercando di usare la scorciatoia referendaria per giustificare decisioni che non hanno il coraggio di prendere in autonomia, dalla politica commerciale (vedi caso Vallonia) alla gestione dell’immigrazione (Ungheria) o dei rapporti internazionali (l’Olanda sul trattato con l’Ucraina).
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Roma, 20 feb. (Adnkronos) - “Lo scontro tra i ministri Lollobrigida e Piantedosi sulla vicenda Bari conferma l’arroganza e lo scarso senso dello Stato di questa destra. Un esponente come Lollobrigida avrebbe preteso, fuori da ogni regola e ignorando il lavoro della Commissione di accesso, di imporre al Ministro dell’Interno lo scioglimento del Comune di Bari. Fin dall’inizio la destra si è comportata in questo modo, ma tutto ha dimostrato l’infondatezza di queste accuse e manovre, il lavoro importante contro le mafie svolto da sindaco De Caro e presidente Emiliano. Non può essere che un ministro come Lollobrigida si comporti in questo modo. Chiameremo il Governo a risponderne”. Così il capogruppo Pd in commissione Antimafia Walter Verini.
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Milano, 20 feb. (Adnkronos) - I carabinieri hanno raccolto tutte le dichiarazioni rese dagli staff e direttamente dagli imprenditori contattati dal gruppo di truffatori che usando il nome del ministro della Difesa Guido Crosetto hanno tentato raggiri milionari. La banda ha contattato almeno una decina delle famiglie più note e ricche in Italia, tra cui Massimo Moratti (l'unica vittima che ha denunciato il raggiro subito), Marco Tronchetti Provera, esponenti delle famiglie Beretta, Del Vecchio, Caprotti e Della Valle, lo stilista Giorgio Armani.
Una volta sentiti dai militari non tutte le persone che hanno risposto alle telefonate del finto ministro o del sedicente generale hanno deciso di sporgere denuncia. La procura di Milano che indaga sulle truffe sta proseguendo il lavoro sul fronte internazionale, per capire i movimenti bancari del denaro recuperato, mentre restano due gli indagati stranieri per associazione per delinquere finalizzata.
Roma, 20 feb. (Adnkronos) - "Delmastro è sottosegretario alla Giustizia, la sua condanna è grave già solo per questo. In più questa condanna arriva perché ha usato i suoi attuali poteri di sottosegretario per manganellare l'opposizione in Parlamento rivelando informazioni che non potevano essere rivelate. C'è un evidente e gigantesco problema politico. Non può restare al suo posto, è inaccettabile". Così Anna Ascani, Vicepresidente della Camera e deputata dem, intervenendo a Metropolis.
Roma, 20 feb. (Adnkronos) - “Senza disciplina. Senza onore. Doveva dimettersi ben prima, a prescindere dalla condanna. Ogni minuto di permanenza in carica di Delmastro è un insulto alle istituzioni”. Così sui social Peppe Provenzano della segreteria del Partito Democratico.
Roma, 20 feb. (Adnkronos) - Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha ricevuto nel pomeriggio al Quirinale, in separate udienze, per la presentazione delle Lettere Credenziali, i nuovi Ambasciatori: S.E. Vladimir Karapetyan, Repubblica di Armenia; S.E. Roberto Balzaretti, Confederazione Svizzera; S.E. Francella Maureen Strickland, Stato Indipendente di Samoa; S.E. Amb. Matthew Wilson, Barbados; S.E. Augusto Artur António da Silva, Repubblica della Guinea Bissau; S.E. Noah Touray, Repubblica del Gambia; S.E. Richard Brown, Giamaica. Era presente il Vice Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, Edmondo Cirielli. Si legge in una nota del Quirinale.