Era una sentenza da 40 anni. E oggi giustizia è fatta, se così si può dire: perché le madri potranno dare il proprio cognome ai loro figli. È arrivato ed era atteso il via libera a questa rivoluzione da parte della Consulta. I giudici hanno dichiarato incostituzionale l’automatica attribuzione del cognome paterno prevista dall’attuale sistema normativo, quando i genitori intendono fare una scelta diversa.

“La Corte costituzionale – si legge nella della Consulta – ha accolto oggi la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte di appello di Genova sul cognome del figlio. La Corte ha dichiarato l’illegittimità della norma che prevede l’automatica attribuzione del cognome paterno al figlio legittimo, in presenza di una diversa volontà dei genitori”. Il caso è quello di un bambino, figlio di una coppia italo-brasiliana, a cui i genitori vogliono aggiungere a quello paterno, anche il cognome materno.

Risale a quasi 40 anni fa la prima proposta in Parlamento per poter dare ai figli il cognome della mamma. L’avvocato Susanna Schivo, legale della coppia, aveva definito “all’evidenza irragionevole” l’attuale sistema. Un principio che non è sancito da una norma specifica, ma che si ricava da disposizioni regolatrici diverse, a cominciare da alcuni articoli del codice civile. Quanto sia superato lo dimostra, aveva fatto notare il legale, anche “la crescita di richieste” alle Prefetture di genitori che vogliono aggiungere ai propri figli il cognome materno. Sì perché questa è attualmente l’unica strada possibile che determinava “un’ingiustizia sostanziale”, visto che i prefetti decidono in maniera diversa, a seconda che ritengano meritevoli o meno di tutela i motivi alla base della richiesta.

Non è la prima volta che Corte costituzionale si occupa della questione. Lo aveva già fatto nel 2006 con una sentenza che fu “molto severa” sull’attribuzione automatica del cognome paterno, come ha ricordato in udienza il giudice costituzionale relatore Giuliano Amato. Allora la Corte disse che si trattava del “retaggio di una concezione patriarcale della famiglia“, “non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna”. Ma ritenne che la questione esorbitasse dalle proprie prerogative, perché se pure si fosse limitata ad accogliere la richiesta di escludere l’automatismo nei soli casi in cui i genitori manifestano una concorde diversa volontà, si sarebbero aperte una serie di opzioni che avrebbero richiesto l’intervento del legislatore. Questioni esemplificate così oggi da Amato: “Che succede se i genitori non sono d’accordo? L’accordo ci deve essere su tutti i figli o si esprime di volta in volta?”.

Per la Corte d’Appello di Genova però da quella sentenza del 2006 il quadro era cambiato, una condizione che giustificava un nuovo intervento della Consulta: c’è stata un’ordinanza della Cassazione nel 2008, è entrato in vigore il trattato di Lisbona che tra l’altro vieta ogni discriminazione fondata sul sesso, e la Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia, ritenendo “discriminatoria verso le donne” e una violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, l’inesistenza di una deroga all’automatica attribuzione del cognome paterno. I magistrati genovesi non avevano dubbi: quell’automatismo va cancellato perché è in contrasto con una serie di precetti costituzionali, a cominciare dal diritto all’identità personale e dal principio di uguaglianza e di pari dignità dei genitori. E il contrasto c’è anche con l’articolo 117 della Costituzione, che impone allo Stato di rispettare gli obblighi internazionali, come la Convenzione di New York sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, ratificata nel 1985 dall’Italia.

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