Il Pd va in conferenza dei capigruppo, al Senato, e chiede il rinvio della riforma penale, l’ennesimo, dopo il referendum costituzionale. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando, dopo poche ore, va in tv e chiede di rivalutare quel calendario perché il disegno di legge può essere approvato entro il 4 dicembre. Maggioranza e governo continuano a ballare intorno alla riforma penale, che – fatta e finita – aspetta di essere votata ormai da mesi dall’Aula di Palazzo Madama. Il motivo è sempre lo stesso: la paura di portare in discussione un testo che da una parte può essere stravolto o, peggio, dall’altra può diventare un rischio serio per la sopravvivenza del governo. Da qui le ripetute toccate e fughe di governo e partiti che lo sostengono, con Orlando che da mesi spiega che la legge è pronta per essere votata e dall’altro la maggioranza che – dopo aver chiesto la discussione perfino “immediata” – si è ritrovata prima a far saltare il numero legale in Aula per tre volte in 15 giorni a settembre e poi addirittura a dare la precedenza al ddl cinema. Il risultato è che la legge è stata tenuta nel limbo dal Pd per la reciproca diffidenza dei vari partiti della maggioranza. Così ora è stato il presidente del Senato Piero Grasso a dire al capogruppo Luigi Zanda che il Partito democratico come minimo deve chiarirsi le idee. Da capire se peserà più la voce del governo, qui espressa da Orlando, o i giochi politici della maggioranza. Rinviare a dicembre, per giunta, potrebbe essere ulteriormente rischioso per il fatto che a un certo punto al Senato arriverà anche la legge di bilancio che pretende ritmi serrati e ha limiti temporali obbligati.
Peraltro ora il governo non ha più nemmeno l’alibi dell’opposizione dell’Anm. Il presidente Piercamillo Davigo e il ministro guardasigilli Orlando infatti si sono presentati insieme, con un’intervista doppia, a DiMartedì, su La7, per chiedere di votare la riforma sul processo penale il prima possibile. Aver messo la riforma in calendario dopo il referendum, ha detto Davigo, “rende più aleatoria l’approvazione delle nostre richieste inserite con modifiche nel disegno di legge sul diritto penale e questo vale in qualunque modo vada il referendum”. “Sono d’accordo – ha aggiunto Orlando – spero si riconsideri la ricalendarizzazione”. Il 29 giugno Grasso e il presidente della Repubblica Sergio Mattarella avevano chiesto di accelerare. Era il 30 giugno 2014 quando Matteo Renzi annunciava in una scenografica conferenza stampa i 12 punti della riforma della giustizia. Dopo oltre due anni la questione resta in alto mare mentre ogni anno decine di migliaia di processi vanno al macero a spese del contribuente.
Il pressing dei Giovani Turchi, la resistenza dei centristi
In conferenza dei capigruppo Zanda era andato a chiedere di fissare il voto sulla riforma, ma solo dopo il referendum, il 7 dicembre. Un modo per tenere insieme varie sensibilità (votiamo, sì, ma senza scossoni prima della consultazione popolare, già in bilico di suo). Zanda era stato spinto a chiedere di discutere definitivamente la riforma penale in particolare da una pattuglia di senatori del Pd, della corrente di “Rifare l’Italia”, cioè i Giovani Turchi, corrente che esprime lo stesso ministro guardasigilli, Orlando. “È una riforma fondamentale – avevano spiegato in una nota i senatori guidati da Francesco Verducci – Ci sono tutte le condizioni per approvarla presto e bene già in questa settimana”. Ma in conferenza dei capigruppo Grasso ha appunto chiesto al Pd di chiarirsi le idee perché la prossima data sarà l’ultima: il presidente del Senato non ha più intenzione di rinviare il voto finale della legge. E d’altra parte a chiedere di far slittare tutto sine die erano stati sempre nella riunione dei presidenti di gruppo Laura Bianconi per Area Popolare e Lucio Barani dei verdiniani di Ala: una fotografia di quanto è delicato questo passaggio per la maggioranza. Tutte divisioni che in questo momento di “campagna referendaria” si punterebbe ad evitare.
Appelli e garanzie di Orlando
E’ così che si spiega come il voto finale non sia ancora arrivato appelli e garanzie del ministro della Giustizia Andrea Orlando che da una parte aveva mediato per far ritirare emendamenti sgraditi ad Area Popolare e dall’altra si era detto convinto e aveva dichiarato più volte che l’accordo era stato raggiunto (l’ultima volta a luglio), chiudendo ad altre richieste dei centristi in senso garantista. Il ddl penale – che contiene tra l’altro riforma della prescrizione e delle intercettazioni – era uscito dalla Camera il 24 marzo 2015, ma già all’epoca il ministro dell’Interno e leader di Ap Angelino Alfano aveva promesso battaglia in Senato. Ma quando, dopo un confronto lungo e serrato, la riforma è arrivata in Aula i senatori di Area Popolare hanno fatto mancare ripetutamente il numero legale. Un segnale di avvertimento più che chiaro.
La maggioranza non si fida di se stessa
Il punto è sempre il solito, infatti: la maggioranza è paralizzata da mesi dalla paura, non vuole portare al voto finale la riforma che lo stesso Orlando, in un’intervista al Corriere di qualche settimana fa, ha definito come quella più “pericolosa” per le stesse sorti del governo. I democratici, in particolare, si trovano tra due fuochi. Da una parte, se non viene posta la questione di fiducia e il voto è “libero”, possono essere presentati emendamenti che – anche con la complicità di qualche voto segreto – possono passare con sinergie trasversali (M5s-Sel-sinistra Pd). E a quel punto il testo avrebbe tonalità meno garantiste e Area Popolare – o parte di questa – potrebbe rifiutarsi di approvare la versione definitiva. Dall’altra, se venisse posta la questione di fiducia, sarebbe un finale da palpitazioni, perché i verdiniani di Ala hanno da tempo annunciato il voto contrario al provvedimento e anche dentro Ncd e Udc l’impressione è che Alfano a parole assicuri il controllo pieno delle proprie pattuglie di senatori, ma nei fatti il terreno sia più viscido. I numeri al Senato li conoscono tutti, senza Ala non c’è un cuscinetto di sicurezza e non c’è cosa che irrita gli ex berlusconiani di governo come le questioni della giustizia.
La fiducia bloccata da Renzi
La riprova era stata proprio a settembre quando Alfano – evidentemente non così sicuro dell’atteggiamento dei suoi – aveva chiesto a Orlando di porre la fiducia e il ministro della Giustizia – refrattario alla fiducia – aveva dato il suo ok. Ma tutto era stato fermato dallo stesso presidente del Consiglio Matteo Renzi. Il capo del governo aveva spiegato quella decisione con ragioni di fair-play istituzionale nei confronti dell’Anm: “Non metto la fiducia su un provvedimento per cui i magistrati potrebbero fare sciopero”. Ma nel frattempo è caduto anche quell’alibi poiché Renzi e Orlando hanno incontrato due settimane fa il presidente dell’Anm Davigo a Palazzo Chigi e un eventuale sciopero non pare all’orizzonte.
Davigo: “Non si può fare la guerra su tutto”
Davigo ha dato atto del fatto che Orlando si “è comportato diversamente dai suoi predecessori” e che le ragioni dei magistrati sono state ascoltate anche se non interamente accolte. Al presidente dell’Anm ancora non bastano le modifiche della prescrizione “che non dovrebbe decorrere dopo la sentenza di primo grado” ma “non possiamo fare la guerra su tutto“.
Orlando ha fatto presente che “si fanno le modifiche che consente il quadro politico: all’inizio di questo governo nessuno pensava che avremmo reintrodotto il falso in bilancio, introdotto il reato di autoriciclaggio e rivisto la prescrizione“. Il ministro guardasigilli ha però sottolineato che “se è giusto dare più tempo per fare il processo, non è giusto lasciare che le persone siano sotto processo per tutta la vita“. Da parte sua Orlando ha spiegato che il ddl “ha l’obiettivo di diminuire i processi” con una serie di misure deflattive che possano far sì che i magistrati si concentrino sui reati di maggior allarme sociale. Davigo, toccando l’argomento dell’evasione fiscale, ha contestato la necessità di fare norme sul rientro agevolato dei capitali dato che “tra un anno dagli altri Paesi arriveranno tutti i dati” su chi nasconde i soldi all’estero. Il presidente dell’Anm ha poi riproposto l’idea della “premialità forte” anche fino alla “impunità totale” per chi denuncia la corruzione facendo parte del “sistema”, dato che questo è uno dei reati meno denunciati in assoluto. Orlando ha difeso la scelta di premiare la collaborazione dei corrotti solo con attenuanti perché sull’impunità assoluta “non sono d’accordo nemmeno i magistrati”.