La vittoria travolgente di Donald Trump si spiega con una serie di dati solo in parte emersi nelle analisi e nei sondaggi di questi mesi. Anzitutto, l’appoggio che Trump ha incontrato in ampi settori di elettorato bianco, rurale ma anche operaio e medio borghese del Sud, del Centro, del Midwest e di molte aree del Nord.
L’appoggio di questa parte d’America era prevedibile ma si è concretizzato in modo molto più compatto rispetto alle previsioni. Interi Stati, che parevano decisamente orientati verso i democratici, sono passati ai repubblicani. Anzitutto la Pennsylvania, che era stata vinta da Barack Obama nel 2008 e nel 2012 ma anche, prima di lui, da John Kerry e da Al Gore – e che invece Clinton perde clamorosamente.
Con la Pennsylvania, cadono altri baluardi democratici. Il Wisconsin, il Michigan. Clinton si lascia sfuggire il North Carolina, la Florida, l’Ohio. Da una prima analisi del voto, il candidato repubblicano ottiene risultati eccezionali nelle aree rurali (meglio di quanto fece Mitt Romney nel 2012) ma tiene anche nelle zone urbane, tra un elettorato medio-borghese che non ha davvero goduto della ripresa economica di questi anni e che non si sente rappresentato dalla coalizione di interessi e dalla cultura che i democratici ormai incarnano – la coalizione di giovani, donne, minoranze, borghesia urbana.
Nella vittoria di Trump ha anche probabilmente contato la debolezza della rivale. Il partito democratico ha sottostimato il livello di contrapposizione che una candidata come Hillary Clinton era destinato a creare. Combattuta da una parte significativa dei progressisti durante le primarie, imposta quasi a forza dalla macchina del partito, Hillary Clinton non è riuscita a staccarsi di dosso l’immagine di politica cinica e compromessa, la percezione di fare parte di una leadership lontana dai bisogni degli americani. I sospetti, le polemiche, gli scandali degli ultimi giorni – dalla Clinton Foundation alle email – non hanno fatto altro che peggiorare la situazione.
Di contro a una candidata non particolarmente amata, c’è stato invece un candidato che ha fatto della sua immagine, della sua sostanza umana ed esistenziale, un dato essenziale della sua discesa in politica. Trump ha potuto godere, nella fase delle primarie, di una copertura mediatica che ha esaltato la sua natura di outsider eccessivo e capace di ribaltare i vecchi assetti della politica di Washington. Questa caratteristica è diventata ancora più forte durante la sfida con Hillary Clinton. Non c’è stato nulla in grado di intaccare l’immagine di “uomo del destino” di Trump, presso il suo elettorato: non la storia delle dichiarazioni delle tasse mai rese pubbliche; non la vicenda del video in cui Trump parla delle sue conquiste femminili; non le accuse di molestie sessuali; non la clamorosa affermazione di non sapere se avrebbe riconosciuto la sconfitta. Tutta la campagna elettorale di Trump è stata un crescendo di dichiarazioni eccessive, di comportamenti controversi, che hanno però rafforzato la sua immagine di leader contro tutto e tutti, in un rapporto simbiotico, diretto, quasi taumaturgico con il “popolo”.
Quello che da gennaio entrerà alla Casa Bianca è del resto un leader per molti aspetti “unico”. Mai, nella recente storia americana, un presidente non è stato o membro del Congresso o governatore. Per trovare un presidente senza esperienza politica o di governo bisogna risalire a Dwight Eisenhower, nel 1952 (che però aveva alle spalle l’esperienza nella seconda guerra mondiale). Oltre a non avere esperienza politica, Trump arriva alla Casa Bianca senza una vera struttura politica, amministrativa, gestionale. Il suo transition team, guidato da Chris Christie, non ha lavorato davvero a questo nelle ultime settimane (buona parte dei suoi stessi collaboratori, in privato, non ha creduto alla sua elezione). Bisognerà capire come il partito repubblicano entrerà nella definizione delle strategie di governo di Trump e soprattutto quale ruolo avranno quei collaboratori come Steve Bannon, il direttore della sua campagna legato ai gruppi dell’alt-right.
Per i repubblicani quella che si profila è comunque un’opportunità storica. Con 51 seggi al Senato e 235 alla Camera, il G.O.P. controllerà da gennaio tutte le leve del potere di Washingotn e potrà lanciarsi in quella riscrittura dell’agenda legislativa, e cancellazione di buona parte delle riforme di Barack Obama, che sono da tempo suoi obiettivi. A rischio c’è l’integrità della riforma sanitaria di Barack Obama; a rischio ci sono gli ordini esecutivi di Obama sull’immigrazione e quelli sulle armi; a rischio le regolamentazioni su ambiente e Wall Street. C’è poi il tema della Corte Suprema, Trump e i repubblicani potranno nei prossimi mesi scegliere il sostituto del defunto giudice Antonin Scalia e riportare così in auge una maggioranza conservatrice in grado di riscrivere il diritto in tema di lavoro, ambiente, diritti civili.
Probabile comunque che, a questo punto, si apra nella politica americana una fase di profonda instabilità. Trump ha suscitato durante queste elezioni un’animosità mai sperimentata ed è possibile che ampie fette di elettorato democratico – ma anche afro-americani, musulmani, ispanici – non si sentano rappresentati da questo presidente. Il soggetto che esce sicuramente devastato da queste elezioni è comunque il partito democratico. Senza più la capacità di rappresentare un’America bianca e operaia che un tempo era il fulcro del suo elettorato, con una leadership delegittimata dopo la scelta di una candidata come Clinton, il vecchio “party of people” inizia una lunga e faticosa strada di ripensamento e rigenerazione. La sconfitta democratica è scioccante, dolorosa. Non solo perché imprevista ma perché coinvolge gli otto anni di governo appena trascorsi. Barack Obama si è impegnato, come forse nessuno poteva aspettarsi, per fare eleggere Hillary Clinton. La caduta di Clinton è, in fondo, anche un verdetto degli americani sulla sua presidenza.