Sono arrivate dalla Toscana, il Piemonte, l’Emilia Romagna, la Calabria, la Sardegna e altre regioni, con i treni e gli autobus con entusiasmo e gioia ma anche con la voglia e la forza di dire basta, non una di meno. Non muoia più o non resti più indietro, nessuna, per la violenza di un uomo o la violenza di Stato.

Un fiume di donne (e moltissimi uomini) si stima fossero anche più di duecentomila, hanno manifestato contro la violenza machista e sessista per un’iniziativa promossa da Non una di meno. Dopo le donne argentine che con il movimento Ni una menos hanno indetto uno sciopero contro la violenza maschile, le polacche e le irlandesi che si sono mobilitate per l’autodeterminazione (aborto), sono state le italiane a riempire le strade come un fiume in piena con una partecipazione e una forza forse inaspettate.  Le donne sono stanche, la pazienza è finita e lo hanno fatto capire forte e chiaro. Sono stanche degli autoritarismi che in diverse parti del mondo con arroganza pretendono di erodere i loro spazi, negare la loro soggettività.

Il corteo, partito da Piazza Esedra alle 15 è arrivato in piazza San Giovanni alle 18 con in testa lo striscione dei centri antiviolenza D.i.Re, per dire basta alla cultura che alimenta la violenza maschile e le discriminazioni, insieme alle donne dell’Udi, di Iodecido e ad altre attiviste di collettivi e associazioni. Le donne protestano perchè non vogliono più tornare indietro ed essere rimesse in una condizione di subalternità e controllo e sono determinate a fermare il backlash del patriarcato.

Un colpo di coda che come un vento freddo soffia raggelando i diritti conquistati con le lotte femministe e oggi messi in discussione dalla misoginia e da una cultura machista che contrattacca e mette in discussione la libertà delle donne. In un corteo che sembrava interminabile hanno sfilato insieme giovanissime e donne mature che avevano già lottato ed erano scese in piazza molte volte negli anni ruggenti del femminismo, si sono guardate neglio occhi e alcune con un sorriso amaro, altre con una risata si sono ritrovate: “Ma ancora qui siamo?”

Ieri, insieme a quelle che potevano essere le loro figlie e nipoti erano per le strade di Roma a didendere il diritto al lavoro e anche per non essere ricattate sessualmente, per avere paritá salariale, per non essere licenziate perché incinte e anche per difendere il diritto alla salute riproduttiva e alla piena applicazione della 194. Una legge che fu una conquista negli anni ’70 contro la pratica degli aborti clandestini delle mammane o dei cucchiai d’oro e che rischia di essere cancellata dall’obiezione di coscienza che in alcune regioni si attesta al 90 per cento del personale medico. “L’obiezione di coscienza è una forma di violenza” hanno scandito le donne contro il boicottaggio della legge, la negazione dell’assistenza medica e le umiliazioni che troppe subiscono quando si sottopongono ad interruzione volontaria di gravidanza.

Giorni fa, Vita di donna ha denunciato prassi che mettono a rischio la salute e la vita delle donne quando insorgono complicazioni durante la gravidanza. Il sacco della placenta si rompe e le pazienti sono lasciate giorni senza che i medici procedano con l’aborto perché si sente il battito del feto. Nel corteo c’erano anche i familiari di Valentina Milluzzo, morta di sepsi al quinto mese di gravidanza all’ospedale Cannizzaro di Catania dopo un ricovero di venti giorni e improvvise complicazioni.

I genitori e il marito  di Valentina hanno dichiarato, dopo aver denunciato i medici dell’ospedale, che un ginecologo non era intervenuto praticando l’aborto perché aveva detto di essere obiettore di coscienza. L’ospedale nega sia vero e ora sta indagando la procura ma Valentina è morta dopo ore di dolori, invocando l’aiuto dei medici.

Nel corteo c’erano anche le madri di giovani uccise dal partner (anche un’amica della madre di Sara Di Pietrantonio) e donne che hanno denunciato violenze ma non sono state credute o non hanno ricevuto risposte adeguate. Le leggi ci sono ma nei tribunali, dicevano le avvocate dei centri antiviolenza presenti nel corteo, la violenza continua a essere confusa con il conflitto e viene difesa, a ogni costo, la genitorialità di uomini violenti che usano strumentalmente i figli per continuare ad avere il controllo sulle ex.

Tutto avviene secondo una logica patriarcale che pensavamo morta e sepolta e che invece pretende la conservazione di legami familiari anche se l’uomo continua a essere violento e si mette a rischio la vita e la serenità delle donne e dei figli (come è avvenuto a Federico Barakat). Le leggi per proteggere le donne dalla violenza ci sono ma è con gli interventi e le prassi distorte che si svuotano le tutele per le vittime come per esempio la mediazione di coppia che non andrebbe mai fatta in casi di violenza perché mette sullo stesso piano l’autore di violenze con la donna che la subisce, rivittimizzandola.

E infine le donne erano in piazza anche contro le difficoltà dei centri anti violenza ancora poco finanziati, alcuni hanno chiuso o sono a rischio di chiusura. L’approvazione della ripartizione delle risorse destinate ai centri antiviolenza e alle case rifugio, annunciata alla vigilia del 25 novembre non costituisce una novità perché come ha dichiarato l’avvocata Manuela Ulivi, consigliera D.i.Re (in un intervista rilasciata ad Elisabetta Ambrosi e pubblicata ieri sul Fatto quotidiano cartaceo), “stanno assegnando soldi messi a bando per il 2015 -2016 in virtù di una legge di 4 anni fa e mai applicata fino in fondo sui finanziamenti e la storia dei questi venti milioni rischia di ripercorrere la strada sei milioni del biennio precedente con i soldi finiti alle Regioni e li arenati mentre ai centri sono arrivate le briciole“.

La prima giornata di mobilitazione si è conclusa ieri ma oggi si ricomincia: 1400 attiviste femministe si riuniranno all’Università la Sapienza, nella facoltà di psicologia per discutere su otto tavoli tematici e gettare le basi per l’elaborazione di un Piano femminista antiviolenza.

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