Martedì 29 novembre la presidentessa sudcoreana Park Geun-hye, in diretta tv, ha annunciato di essere pronta a dimettersi “quando i parlamentari individueranno delle misure per il trasferimento dei poteri che riducano al minimo il vuoto di potere e il caos nella governance del paese”. Si tratta dell’ultimo colpo di coda della prima presidentessa donna della Corea del Sud, al centro di contestazioni di piazza in seguito allo scandalo dei rapporti controversi tra Park e Choi Soon-sil, accusata di aver manipolato la capa dell’esecutivo di Seul approfittando della sua amicizia privilegiata.

Choi, descritta dai media internazionali come una sorta di “sciamana”, nonostante non ricoprisse alcun ruolo politicoistituzionale, grazie a un’amicizia pluritrentennale con Park (nella foto una manifestazione per chiederne le dimissioni), aveva accesso ai dietro le quinte dell’azione di governo sudcoreana, influenzando la presidentessa dai discorsi pubblici alla politica estera – specie nei rapporti sempre più intransigenti col vicino nordcoreano – fino ad esercitare pressioni sulle aziende nazionali per “donazioni” a organizzazioni no profit di facciata.

Tra i brand costretti a versare l’obolo alle controllate di Choi per timore di ripercussioni da parte delle autorità nazionali risultano esserci anche Samsung, il più grande gruppo sudcoreano, e Hyundai, primo produttore di automobili nel paese. Il caso, venuto a galla nel mese di ottobre, è deflagrato in tutta la sua potenza nel mese di novembre, portando all’arresto di Choi, figlia di un santone amico del dittatore Park Chung-hee (padre dell’attuale presidentessa sudcoreana), e al sequestro di documenti che proverebbero l’accumulo illegale di oltre 70 milioni di euro in pochi anni, tra liquidi e proprietà immobiliari.

Nonostante la presidentessa Park si sia profusa in scuse ufficiali alla nazione per ben due volte, le ripercussioni dello scandalo hanno travolto il governo di Seul, portando centinaia di migliaia di persone per le strade del paese a reclamare le dimissioni immediate della presidentessa, secondo i sondaggi sostenuta da un misero 5 per cento dei sudcoreani. La rabbia della popolazione, tradita dal vertice dell’esecutivo, si interseca con le peculiarità del sistema legale sudcoreano: a norma di legge, un presidente in carica può essere processato solo per insurrezione o alto tradimento; per tutti gli altri capi d’accusa ora al vaglio degli inquirenti del cosiddetto “Choi-gate” – sicuramente abuso di potere e divulgazione di segreti di stato – le dimissioni sono una precondizione.

Il parlamento sudcoreano, saldamente nelle mani della maggioranza di governo col partito di Park, il conservatore Saenuri, secondo i media locali ha intenzione di avviare le procedure di impeachment già a partire da questo fine settimana, avvalendosi del voto favorevole di diversi esponenti della maggioranza.

Un’ipotesi che Park, con l’annuncio del 29 novembre, starebbe cercando di evitare, offrendo al parlamento un’uscita di scena “concordata” per evitare umiliazioni e ricompattare il Saenuri.
Park Kwang-on, parlamentare all’opposizione col Democratic Party, in un’intervista al Guardian ha dichiarato: “Park sta scaricando il barile sul parlamento quando potrebbe semplicemente dimettersi. Sta chiedendo al parlamento di scegliere una data per le sue dimissioni, sapendo che il tema porterà a discussioni interne circa la data da fissare per le nuove elezioni, rimandando tutto a data da destinarsi”.

Con percentuali di consenso per la presidentessa ai minimi storici, sabato scorso a Seul si è tenuta una manifestazione per chiedere le dimissioni di Park, la quinta in cinque weekend consecutivi. Secondo gli organizzatori per le strade della capitale avrebbero sfilato più di un milione e mezzo di persone. Stima che la polizia ha ridimensionato a 260mila presenze.

di Matteo Miavaldi

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