Quella dei voucher è la storia di un domino. È cioè la storia della caduta inarrestabile di tutti (o quasi) i limiti inizialmente posti all’uso del famigerato tagliando da 10 euro. Una liberalizzazione sempre più massiccia, voluta da governi di ogni natura e colore politico, che ha portato a quella che anche al ministero del Lavoro definiscono una “esplosione incontrollata che è sotto gli occhi di tutti: basta guardare i dati”. Ecco, i dati: nel 2008, l’anno della reale introduzione dei voucher, i tagliandi staccati furono 500mila; nei primi 10 mesi del 2016, si è arrivati a superare quota 121 milioni.
Da strumento per regolarizzare i lavori privati a “ultimo anello della catena della precarietà” – Dovevano essere degli strumenti per regolamentare piccole prestazioni private, dalla raccolta dei pomodori alla pulizia domestica. Tutti lavoretti estemporanei, regolati da “rapporti di natura meramente occasionale e accessoria”. Questo, almeno, stabiliva la Legge 30 del 2003. Che impediva, tra le altre cose, l’utilizzo dei voucher da parte di committenti imprenditori. Introdotti a tutti gli effetti nel 2008 dal governo Prodi, negli anni seguenti i voucher hanno finito per creare, secondo il giuslavorista Federico Martelloni, “una zona franca nel mercato del lavoro”. Prima il governo Berlusconi, poi soprattutto quello guidato da Mario Monti attraverso la Legge Fornero, poi ancora l’esecutivo di Enrico Letta, hanno esteso sempre più l’uso del voucher, aprendolo definitivamente al mondo dell’impresa. “È stata questa – prosegue Martelloni – la stortura maggiore: se all’inizio è stato uno strumento utile a far emergere il nero nelle relazioni di lavoro private, a furia di liberalizzazioni il voucher è diventato l’ultimo anello, il più brutale, della catena della precarietà”.
Il ministero de Lavoro: “La tracciabilità voluta da Renzi? Non basta e neppure funziona” – Anche il governo Renzi ha facilitato l’uso dei voucher, portando fino a 7mila euro (prima era 5mila) la cifra massima che una singola persona può recepire in voucher nell’arco di un anno. Non è stata variata, invece, la soglia dei 2mila euro che il singolo committente può pagare, in voucher, a ciascun collaboratore. Chi di quel governo ha fatto parte, però, rivendica un merito sostanziale. “Nel decreto correttivo sul Jobs Act abbiamo previsto rigorosi criteri di tracciabilità dei voucher”, ha dichiarato il ministro del Lavoro Giuliano Poletti alla Camera il 21 dicembre scorso. Ma un profondo scetticismo, circa l’efficacia di queste misure, trapela dalle stesse stanze del ministero di Via Veneto. Paolo Pennesi, direttore dell’Ispettorato nazionale del lavoro, afferma che “questo tipo di tracciabilità non solo non risolve in alcun modo il problema dell’esplosione dell’uso dei voucher, ma non è efficace neppure per prevenire gli abusi. Perché potessimo verificare che il numero di ore pagate a voucher sia effettivamente quella comunicata tramite sms dai committenti, ci sarebbe bisogno – è il ragionamento di Pennesi – di controlli in tempo reale. Ma il numero esorbitante di tagliandi staccati ogni giorno c’impedisce di farli. E così per le aziende diventa sin troppo facile truccare i conti”.
A chi è convenuta la liberalizzazione? – Per capire in che modo le aziende hanno sfruttato le opportunità che venivano loro concesse dall’uso indiscriminato del voucher, la testimonianza di Giorgio (nome di fantasia) è illuminante. Giorgio è stato per anni direttore di vari punti vendita di Burger King in Lombardia, prima che il suo rapporto con l’azienda s’incrinasse irrimediabilmente. “Di fatto – racconta – dopo una prima fase di sperimentazione, ora l’uso dei voucher è pianificato in modo scientifico. Quando si organizzano i turni, si prevede che circa la metà del personale impiegato in ciascun punto vendita venga pagata coi voucher. Inoltre l’azienda – prosegue Giorgio – tende a utilizzare i voucheristi nei turni notturni o durante i festivi: quelli, cioè, in cui un lavoratore regolare costerebbe di più”. Una strategia adottata anche da gruppi importanti, come Carrefour, nel settore della grande distribuzione, soprattutto in Lombardia. Ad affermarlo è Marco Beretta, segretario della Filcams-Cgil di Milano, che afferma: “Il voucher consente che l’abbattimento dei costi del personale avvenga in modo perfettamente legale”.
Martelloni, che è professore di Diritto del lavoro all’Università di Bologna, non ha dubbi al riguardo: “È chiaro che le uniche ad aver gioito della liberalizzazione dei voucher sono state le imprese”. E l’allarme lanciato da Martelloni è condiviso anche da Pennesi. Che spiega: “Ingenuamente si pensava che il tetto dei 2mila euro avrebbe indotto le aziende ad un uso limitato del voucher, perché il dover rinnovare in continuazione il personale impedisce qualunque forma di fidelizzazione del proprio lavoratore. Ma le imprese ritengono così conveniente il voucher come strumento di abbattimento dei costi del lavoro, che accettano volentieri il rischio di avere impiegati meno specializzati”.
Prima e dopo i voucher: cos’è cambiato? – Gli stratagemmi per aggirare le norme esistevano ovviamente già prima dell’introduzione dei voucher. “I voucher hanno solo reso tutto più semplice”, sintetizza Martelloni. È avvenuto, ad esempio, nell’edilizia, come spiega Gabriele Rocchi, segretario della Fillea-Cgil di Milano: “In passato si è assistito alla proliferazione delle partite Iva. I committenti obbligavano i manovali a diventare dei finti lavoratori autonomi, con tutti i disagi del caso. Ora, più banalmente, alcuni di quei manovali vengono licenziati e costretti a tornare in cantiere come voucheristi”. Altro escamotage che è stato cannibalizzato dai voucher è quello dei contratti di apprendistato fittizi, che ponevano – a differenza del voucher – il problema del limite d’età del lavoratore: massimo 25 anni. “Il voucher – afferma Pennesi – ha sostituito forme di lavoro più strutturato, rendendole meno convenienti per i datori e meno raggiungibili per i lavoratori”. Per capire se tutto ciò possa avere ripercussioni pesanti sul lungo periodo, Martelloni offre una lettura di carattere storico: “Il voucher ha segnato il ritorno ad una concezione ottocentesca del rapporto tra datore e lavoratore, riproponendo la concezione del contratto di lavoro come un semplice scambio tra lavoro e moneta”.
“Tornare ai committenti privati? Al ministero se ne sta parlando. Vedremo” – Cosa si sta pensando, a Via Veneto, per porre rimedio a questa proliferazione incontrollata di voucher? “Una delle poche ipotesi davvero efficaci – racconta Pennesi – sarebbe quella di tornare a restringere l’uso dei tagliandi ai soli committenti privati”. Ma si tratta soltanto di un’ipotesi? “Diciamo che è qualcosa di cui negli ultimi giorni si sente parlare parecchio, per le stanze del Ministero”. E non solo in quelle stanze: sul tavolo della Commissione Lavoro di Montecitorio ci sono due proposte, avanzate dal Pd e da M5S, che tendono proprio a ridefinire il lavoro accessorio secondo la formulazione iniziale delle Legge 30 del 2003.
Una soluzione che, seppure tardiva, potrebbe trovare l’apprezzamento anche dei critici più feroci dei voucher, e in particolare della Cgil. Che la mossa sia dunque funzionale a depotenziare il rischio costituito dai referendum promossi dal sindacato guidato da Susanna Camusso? “Questo – si tira indietro Pennesi – non spetta a me dirlo. Mi limito a supporre che se restringessimo l’uso dei voucher ai committenti privati, forse anche la Cgil sarebbe un po’ più contenta”.