Raddoppiare le espulsioni degli immigrati irregolari dalle attuali 5mila alle 10mila unità, si legge nella circolare di due pagine che a fine anno il ministero dell’Interno ha inviato a tutte le prefetture. Per farlo servono accordi con gli Stati di provenienza o di transito. Per questo nei prossimi giorni il ministro dell’Interno Marco Minniti volerà a Tunisi e Tripoli: “Dobbiamo affrontare il problema lì – ha detto il 5 gennaio – costruire un sistema di cooperazione che funzioni in Libia, Niger, Sudan, Tunisia”. “Per rimpatriare gli irregolari nei propri Paesi – spiega a IlFattoQuotidiano.it Francesco Cherubini, docente di Diritto dell’Unione Europea all’Università Luiss “Guido Carli” – sono necessarie intese con ogni singolo Stato ed essere riusciti a identificare la nazionalità del soggetto. Al contrario, il rimpatrio è possibile solo verso l’ultimo Paese di transito prima dell’entrata nell’Ue. Ma un accordo sui rimpatri con la Libia – dalla quale è passato l’82% dei migranti arrivati in Italia nel 2016 – è quasi impossibile o, comunque, inapplicabile”.
“Aumento dei rimpatri”, ma mancano accordi, controllo e possibilità di identificazione
Tra gli irregolari presenti in Italia ci sono coloro in possesso di un visto turistico o un permesso di soggiorno scaduti, quelli che hanno richiesto ma non ottenuto lo status di rifugiato, l’asilo politico o la clausola umanitaria e quelli che sono entrati nel Paese come irregolari e non hanno fatto richiesta di protezione internazionale. Tutte queste persone, se individuate, saranno oggetto di un decreto di espulsione.
Ciò che fa la differenza è la possibilità di identificare o meno il migrante irregolare, stabilirne la cittadinanza e ricostruirne la storia personale. Se questo è possibile, nel caso in cui esista un di riammissione tra i due Stati o tra quello di provenienza e l’Unione Europea, ci sarà il rimpatrio verso il Paese di origine. Se, come spesso succede, l’immigrato è sprovvisto di documenti e risulta impossibile stabilirne la nazionalità, il rimpatrio sarà disposto verso il Paese non-Ue di transito prima dell’entrata nel territorio dell’Unione. Ma solo se esistono accordi tra i due Paesi interessati o tra quello non-Ue e l’Unione Europea.
Nel Mediterraneo poche intese, e non con i Paesi di maggior afflusso
Stipulare accordi con tutti i Paesi di provenienza degli immigrati che arrivano sul territorio italiano, sia a livello comunitario che bilaterale, è difficile e non risolve il problema degli irregolari non identificati. Per questo, trovare intese con i Paesi di transito è fondamentale per rendere efficace la politica dei rimpatri. Per l’Italia, l’area strategica è quella del bacino del Mediterraneo, soprattutto il Nord Africa.
Secondo i dati forniti dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), nel 2016 l’82% degli sbarchi sulle coste italiane riguardava migranti partiti dalle coste della Libia. Un 7% in meno rispetto all’anno precedente, dovuto anche alla crescita della rotta tunisina che è passata dallo 0,3% del 2015 al 5,5% del 2016. Chiudono Algeria ed Egitto, Paesi di provenienza dei barconi nel 10,2% dei casi.
L’Italia può vantare accordi di riammissione con il Marocco, intesa raggiunta a livello europeo, e con l’Algeria. Quelli raggiunti con Egitto e Tunisia, gli ultimi tra il 2010 e il 2011, potrebbero essere resi inoperosi in conseguenza ai colpi di Stato e agli stravolgimenti dell’impianto istituzionale che hanno coinvolto i due Stati con l’avvento delle Primavere arabe. Nonostante questo, però, i rimpatri verso i due Paesi sono continuati, anche se la recente visita del ministro Minniti a Tunisi fa pensare alla volontà di ridiscutere e, magari, rafforzare l’accordo tra Roma e il Paese nordafricano. Il governo non ha ancora reso pubblici i dettagli dei colloqui, in vista anche del viaggio a Tripoli del capo del Viminale, ma dal ministero parlano della volontà di creare intese che impediscano le partenze dalle coste nordafricane.
Caos Libia: “Un accordo con Tripoli risulterebbe inapplicabile”
Il grosso nodo da sciogliere per l’Italia, visti i numeri relativi agli sbarchi, rimane però la Libia. Un Paese con il quale i governi precedenti, prima della destituzione di Muammar Gheddafi, avevano raggiunto accordi anche sul tema immigrazione. Dopo la caduta del regime, però, il Paese è sprofondato nel caos e ancora oggi si trova senza un governo riconosciuto dalle decine di anime che lo compongono. L’idea del governo italiano è quella di frenare le traversate nel Mar Mediterraneo, contrastando il traffico di esseri umani all’interno del Paese e rendendo così impossibili le partenze. Per fare ciò, le istituzioni libiche avrebbero intenzione di bloccare i flussi già all’estremo sud del proprio territorio, al confine con Ciad e Niger.
L’unico interlocutore affidabile e disposto a parlare con il governo italiano, però, è l’esecutivo voluto e riconosciuto dalle Nazioni Unite: quello del Primo Ministro Fayez al-Sarraj. Il premier libico, però, ha il controllo di una limitata parte di territorio, con vaste aree del sud, ma anche della costa, in mano a gruppi jihadisti come al-Qaeda e lo Stato Islamico e ad altre realtà tribali. Senza dimenticare le ampie fette di terreno controllate dal generale Khalifa Haftar, nell’area di Tobruk, e dall’ex premier Khalifa Ghwell, a Tripoli. Le rotte dei migranti provenienti da tutta l‘Africa subsahariana attraversano i territori in mano a fazioni tribali o gruppi terroristici che fanno affari con le organizzazioni criminali, sfuggendo così al controllo delle già debolissime istituzioni libiche.
Anche sul fronte espulsioni la situazione libica crea un’impasse con poche vie d’uscita. Se l’82% degli immigrati che attraversano il Mediterraneo verso l’Italia parte dalla Libia, la maggior parte degli irregolari non identificati dovrebbero essere rimpatriati nel Paese nordafricano. La frammentazione del Paese torna così a rappresentare un grande ostacolo: “In casi come quello libico – spiega Cherubini – un governo dovrebbe astenersi dallo stringere accordi di riammissione. Questo perché l’interlocutore scelto, al-Sarraj, rappresenta solo una delle anime politiche del Paese e controlla una fetta limitata di territorio. Un accordo si può pure fare, ma è inapplicabile”.