La corsa dell’industria cinematografica cinese si ferma nel 2016. Nonostante gli ingenti investimenti nel settore, lo scorso anno il box office è lievitato soltanto del 3,6% – dopo oltre un decennio di crescita a due cifre – riducendo le possibilità di un sorpasso sul mercato americano, ormai a quota 11 miliardi di dollari. La traballante tenuta della seconda economia mondiale sembra aver influito drasticamente sulla diminuzione dei biglietti strappati — andare al cinema è ancora relativamente costoso per i cinesi — , ma non è l’unico fattore di rallentamento. Secondo gli esperti, è soprattutto la mancanza di pellicole di qualità a frenare la crescita del settore.
Negli ultimi anni il governo cinese ha puntato a rilanciare acquisizioni hollywoodiane e coproduzioni sino-americane, continuando a centellinare la proiezione di film stranieri oltre la Muraglia. Una strategia messa in campo da una parte per assicurare maggiori fette di mercato ai produttori nazionali, dall’altra per consolidare il soft power cinese all’estero. In quest’ottica The Great Wall, l’ultima fatica del noto regista Zhang Yimou, avrebbe dovuto rappresentare il fiore all’occhiello della “lunga marcia” dell’entertainment made in China-Usa. Ma il blockbuster, prodotto congiuntamente da Dalian Wanda e dallo studio americano Legendary Entertainment (acquistato dal gruppo cinese lo scorso anno), è stato coperto da una pioggia di critiche fin dalla sua uscita nelle sale il 16 dicembre scorso. Oltre alla presenza di Matt Damon – nei panni di un improbabile mercenario inglese al servizio del Celeste Impero contro creature mitologiche – a non convincere esperti e neofiti sono la “mancanza di innovatività” e i “numerosi cliché”.
Il colossal mette così il cappello a un anno di uscite deludenti, da See You Tomorrow, prodotto da Alibaba Pictures Group, a Railroad Tigers, commedia recitata da Jackie Chan. Tutte e tre le pellicole hanno ottenuto un punteggio tra 4,9 e 5,8 (su un massimo di 10) da parte dei redattori di Douban, che insieme a Maoyan rappresenta uno dei siti di critica cinematografica più autorevoli del gigante asiatico. Ma per Zhang Yimou e la stampa cinese si tratta di recensioni falsate da pregiudizi e “grossolana inaccuratezza”. Se per il regista cinese i critici sono colpevoli di utilizzare “doppi standard” nella valutazione di film domestici e d’oltremare (letteralmente: “il sermone del monaco straniero è sempre migliore”), secondo l’ufficialissimo Quotidiano del popolo la proliferazione di commenti irresponsabili sarebbe addirittura nociva per “l’ecologia dell’industria cinematografica cinese”. “Sebbene questi film abbiano dei difetti in termini di qualità artistica, non possiamo ignorare il fatto che certi utenti verificati, personaggi pubblici e blogger abbiano pubblicato commenti maligni e irresponsabili al fine di attirare l’attenzione e aumentare il traffico online”, scriveva a fine dicembre il giornale di partito, suggerendo che, indipendentemente dalle manchevolezze oggettive, le voci sfavorevoli concorressero a marcare la traiettoria discendente del mercato interno.
Come spesso accade in Cina, gli ammonimenti a mezzo stampa non sono rimasti lettera morta. Nell’ultimo mese i censori sono corsi ai ripari, rimuovendo alcune delle valutazioni più sfavorevoli, compreso un articolo del commentatore cinematografico He Yan, dimostratosi solidale con lo staff di Douban. Uno sforzo superfluo nel caso del competitor Maoyan, che avrebbe invece provveduto a correggere di sua sponte le “brutte pagelle”, oltre che a disattivare la sezione dedicata alle recensioni firmate da critici professionisti. L’ultima stoccata è arrivata l’11 gennaio con l’istituzione della China Film Critics Association, una nuova commissione nazionale — la prima del genere nel paese — che, operando sotto l’ombrello della State Administration of Radio, Film, and Television (l’organo preposto al controllo dei media) provvederà a correggere “il caotico sistema” delle recensioni, sulla base di sette principi cardine: i commentatori online saranno tenuti, tra le altre cose, a “dire la verità”, a “rispettare il diritto di ogni spettatore ad apprezzare o meno un film”, e a “evitare un linguaggio offensivo nell’attaccare registi”. A chi paventa l’ennesima stretta liberticida messa a segno dall’amministrazione Xi Jinping, il direttore Zhang Yiwu risponde che l’Associazione non rappresenta il governo cinese e non va associata al polverone innescato dall’insuccesso di The Great Wall. Ma considerati i suoi stretti legami con la conglomerata Wanda — vera portavoce delle aspirazioni hollywoodiane di Pechino — e il suo fondatore Wang Jianlin, difficilmente rassicurazioni potrebbero suonare meno convincenti.
Di Alessandra Colarizi