Scarse, disperate, semplicemente inadeguate: Pescara, Palermo e Crotone (rigorosamente in ordine di graduatoria) a gennaio sono già retrocesse. A meno undici dalla quartultima, dopo le sconfitte e il pareggio di ieri e la contemporanea vittoria dell’Empoli ora il distacco è diventato superiore ai punti conquistati in classifica. Non era mai successo nella storia recente della Serie A. Gli abruzzesi hanno vinto solo a tavolino (alla terza giornata, ad agosto: le 19 partite consecutive senza successi sono il nuovo record negativo del campionato). I calabresi ci hanno messo 11 giornate per portare a casa i primi tre punti, i siciliani hanno cambiato tre allenatori ma hanno vinto un match negli ultimi 4 mesi. Il loro fallimento è anche quello di tutto il calcio italiano: sempre più livellato verso il basso, sempre più noioso, con la lotta per lo scudetto virtualmente decisa e quella per la retrocessione praticamente conclusa. Questa Serie A a 20 squadre non funziona più. Ma alla politica del pallone, a partire da Carlo Tavecchio, non interessa.
È come se i vertici del nostro calcio non avessero imparato nulla dagli ultimi campionati. E tantomeno dalle tre storie, così diverse e così simili tra loro, di queste provinciali allo sbaraglio. Il Pescara forse è la delusione più grande dell’anno: a inizio stagione sembrava che i ragazzini terribili di Oddo potessero essere addirittura la rivelazione del campionato. Lo spettacolare 2-2 all’esordio col Napoli, un paio di pareggi stretti, anche la vittoria a tavolino col Sassuolo. Buon auspicio, si pensava. Invece è rimasta anche l’unica degli abruzzesi. Probabilmente società e allenatore hanno peccato di presunzione, sopravvalutando il valore di certi giocatori (e la propria capacità di andare oltre i limiti). È un insegnamento per tutti: il proverbiale mix di promesse e giocatori navigati a volte può non bastare per affrontare la categoria. I giovani (pur bravi: Zampano, Verre, Caprari lo sono senz’altro) si sono persi nella propria inesperienza; i vecchi (Bizzarri, Campagnaro, Aquilani) si sono riscoperti all’improvviso troppo vecchi. Il risultato è una squadra allo sbando, figuracce in serie, progetto naufragato.
A Palermo fanno i conti con la fine dell’era Zamparini. Un lento e triste crepuscolo che avrebbe potuto consumarsi già lo scorso anno. Stavolta la rosa era davvero troppo scarsa per potersi salvare, e lo si sapeva sin dalla prima giornata ad agosto. Il presidente, invece di rimediare ai propri errori, ha prodotto l’ennesima girandola di allenatori, bruciando anche uno dei migliori talenti della panchina italiana come Roberto De Zerbi. Per ripartire dalla Serie B servirà forse una nuova proprietà. Quanto al Crotone, paradossalmente la squadra più inadeguata è anche quella che si sta comportando meglio: partiti senza alcuna ambizione se non quella di non sfigurare troppo, con una rosa chiaramente inferiore anche a quella che aveva centrato la storica promozione, i calabresi in fondo stanno centrando l’obiettivo, con prestazioni di carattere e tante sconfitte di misura nel finale. Non basterà neanche per avvicinare la quota salvezza.
Sembrava impossibile, invece in coda la stagione sta andando peggio dello scorso anno, quando pure Verona, Frosinone e Carpi avevano fatto praticamente campionato a sé. Solo la loro pochezza aveva permesso al Palermo di salvarsi all’ultima giornata, ma almeno c’era stata un po’ di lotta; stavolta neanche quella. Eppure ce ne sarebbero di squadre che meriterebbero di retrocedere, o comunque di soffrire un po’: invece l’inadeguatezza delle ultime tre permette agli altri di stare tranquilli. Fin troppo: c’è chi sbaracca e svende a gennaio (come il Genoa), chi ha tirato i remi in barca da tempo (tipo il Chievo), chi sin dall’inizio è partito col meno del minimo indispensabile (vedi l’Empoli). La Serie A a 20 squadre perdona tutti. Intanto il livello si abbassa, la competitività scende, i tifosi calano. Nel disinteresse di chi governa il calcio italiano. I presidenti di rinunciare ai milioni dei diritti tv non ne vogliono sapere. Carlo Tavecchio, che tre anni fa era stato eletto a capo della Figc fissando in cima alla lista delle sue priorità la riforma dei campionati, non è riuscito a trovare un accordo. E ora, in piena corsa per la rielezione, chiude ogni discorso: “La riduzione a 18 è pura utopia, ci vorrebbero i due terzi dei voti”. Gli stessi che gli servono per essere riconfermato in Figc: meglio non scontentare nessuno in campagna elettorale. Lui pensa alla poltrona: in fondo al calcio italiano non ci pensa nessuno.