Se don Pino Piromalli è stato il padrone del porto di Gioia Tauro, suo figlio Antonio ha conquistato il mercato ortofrutticolo di Milano. Stamattina è scattato il blitz dell’operazione “Provvidenza”, coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria che ha emesso un decreto di fermo per 33 persone considerate affiliate alla cosca Piromalli e accusate a vario titolo di associazione mafiosa, traffico di stupefacenti, intestazione fittizia di beni, autoriciclaggio, tentato omicidio e altri reati aggravati dalle finalità mafiose.
Tra questi c’è anche il boss Antonio Piromalli, di 45 anni, reggente assoluto della potente cosca di Gioia Tauro e già condannato in via definitiva nel processo “Cento anni di storia”. L’operazione “Provvidenza”, coordinata dal procuratore Federico Cafiero De Raho, dall’aggiunto Gaetano Paci e dal sostituto Roberto Di Palma, ha dimostrato come i tentacoli della cosca Piromalli abbiano infettato Milano potendo vantare anche diramazioni negli Stati Uniti dove l’Fbi sta svolgendo i necessari approfondimenti investigativi.
Grazie alle intercettazioni telefoniche e all’attività investigativa classica, inoltre, gli investigatori del Ros dei carabinieri sono riusciti a documentare il controllo di tutto il narcotraffico che passa dal porto di Gioia Tauro, ma anche la penetrazione della cosca nel tessuto economico della Piana dove i Piromalli avevano progettato la realizzazione di un centro commerciale all’altezza dello svincolo autostradale della Salerno-Reggio Calabria.
Il sistema era lo stesso anche a Milano dove Antonio Piromalli esercitava un radicale controllo sugli apparati imprenditoriali, nei settori immobiliare e agroalimentare. Se il “core business” della cosca era la droga, i carabinieri del Ros hanno ricostruito pure l’infiltrazione e gli interessi illeciti nel mercato ortofrutticolo di Milano – dove già nel 2006 l’operazione For a King aveva svelato le infiltrazioni della ‘ndrangheta – e dove oggi i Piromalli controllavano tutto e avevano messo in piedi la rete di distribuzione di olio contraffatto negli Usa, facente capo a un imprenditore italo-americano organico alla famiglia mafiosa di Gioia Tauro. Sul fronte patrimoniale, infine, è stato documentato il reimpiego delle risorse di provenienza illecita in società di abbigliamento, collegate a noti marchi francesi, e in imprese operanti nell’edilizia e nella gestione di strutture alberghiere.
Residente in Brianza, Antonio Piromalli da anni ha preso il posto del padre Giuseppe detenuto al 41 bis, il padrino che aveva il controllo assoluto del porto di Gioia Tauro dove, come emerge dalle vecchie indagini, prendeva un dollaro ogni container che transitava dallo scalo calabrese. Dagli inquirenti, Antonio Piromalli viene descritto come “la persona più indicata per fare le veci del padre. Quel padre che, peraltro, era stato per anni e anni, anzi diversi decenni, la guida della ‘famiglia’ che, sotto la sua direzione, aveva prosperato sempre più e che, dalla originaria condizione di ‘ndrina dal livello agro-pastorale, era lievitata al livello di vera holding del crimine privilegiando, prima tra tutte quelle della Provincia di Reggio Calabria, gli aspetti economici ed imprenditoriali del crimine organizzato, non disdegnando e, anzi, curando, come visto nel corso della esposizione, anche di mantenere gli opportuni contatti col mondo politico e delle istituzioni”.
L’ex rampollo di don Pino, diventato boss di razza è il principale artefice di quel “mutar continuamente pelle” della cosca Piromalli che “mentre da un lato è garanzia della sopravvivenza dell’organizzazione criminale, dall’altro le consente di essere sempre più efficace e pronta a cogliere le opportunità offerte dal cambiare delle situazioni politiche ed economiche, sia a livello nazionale che internazionale, non trascurando il fenomeno della ‘globalizzazione’”.
Nell’inchiesta “Cento anni di storia”, infatti, erano emersi i contatti tra gli esponenti della cosca Piromalli addirittura con il senatore Marcello Dell’Utri. Il “mondo di mezzo”, in quel caso, era rappresentato dall’ex democristiano Aldo Micciché definito dalla Cassazione “l’uomo di contatto tra gli appartenenti alla ‘ndrina dominante di Gioia Tauro e ambienti politico istituzionali”.
“Fagli capire – erano le istruzioni date nel 2007 a Micciché prima di parlare con Dell’Utri – che… il Porto di Gioia Tauro lo abbiamo fatto noi… fagli capire che in Aspromonte e tutto quello che succede là sopra è successo tramite noi… fagli capire che in Calabria o si muove sulla Tirrenica o si muove sulla Ionica o si muove al centro ha bisogno di noi… noi abbiamo solo una richiesta che non è ne finanziaria né di mio zio né di altri… è che almeno, non tanto su di me, ma su quanto mio cugino gli venga riconosciuta in qualche forma… in qualche cosa… l’immunità… Guarda Aldo che gli venga dato un Consolato dello Stato Russo, Viettenamita, Arabo, Brasiliano non mi interessa… perché… ecco perché se c’è zio fuori e pure lui… eh… poi siamo rovinati”.
Con Pino Piromalli in carcere, la ‘ndrangheta avevano chiesto a Dell’Utri l’immunità per il figlio Antonio uscito dal carcere nel dicembre 2013 e oggi di nuovo arrestato dai carabinieri del Ros su richiesta del sostituto procuratore Roberto Di Palma. Il “cugino” Antonio doveva essere libero per mantenere il controllo della Piana di Gioia Tauro e per infettare ancora di più il territorio della Lombardia dove il mercato ortofrutticolo di Milano era sempre più roba dei calabresi.