La disciplina attuale sui voucher ha una falla: non prevede che siano usati solo per lavoretti occasionali. Insomma è la normativa stessa, nata nel 2003 sotto il il governo Prodi e modificata negli anni da Berlusconi, Monti, Letta e Renzi ampliandone le maglie, a consentire ai datori di lavoro di usare i buoni da 10 euro per pagare quelli che di fatto, in molti casi, sono dipendenti a tutti gli effetti. Per questo la Consulta, lo scorso 11 gennaio, ha ammesso il quesito referendario sull’abolizione dei buoni. Al contrario, quello sull’articolo 18 è stato bocciato per motivazioni quasi identiche a quelle avanzate dall’Avvocatura dello Stato nella memoria presentata per conto di Palazzo Chigi prima del pronunciamento della Corte: i giudici lo hanno ritenuto inammissibile “anzitutto a causa del suo carattere propositivo, che lo rende estraneo alla funzione meramente abrogativa assegnata all’istituto di democrazia diretta previsto dall’articolo 75 della Costituzione”. E’ quanto emerge dalle sentenze appena depositate.
“Buoni lavoro non necessari: sono alternativi a tipologie regolate da altri strumenti” – Nella disciplina che regola i voucher “viene a mancare qualsiasi riferimento alla occasionalità della prestazione lavorativa quale requisito strutturale dell’istituto”, si legge nelle motivazioni sull’ammissibilità della consultazione proposta dalla Cgil. Smentita, dunque, la posizione dell’esecutivo esplicitata dall’Avvocatura, secondo cui eliminare i voucher creerebbe un “vuoto normativo idoneo a privare di una compiuta e necessaria regolamentazione tutte quelle prestazioni che per la loro limitata estensione quantitativa o temporale non risultino utilmente sussumibili nel paradigma normativo del lavoro a termine o di altre figure giuridiche contemplate dall’ordinamento vigente”. Falso, secondo alla Consulta: “Il quesito, contrariamente all’assunto della Presidenza del Consiglio dei ministri, non inerisce a disposizioni cui possa essere attribuito il carattere di norma costituzionalmente necessaria, in quanto relativa alla materia del lavoro occasionale, che deve trovare obbligatoriamente una disciplina normativa. L’evoluzione dell’istituto, nel trascendere i caratteri di occasionalità dell’esigenza lavorativa cui era originariamente chiamato ad assolvere, lo ha reso alternativo a tipologie regolate da altri istituti giuslavoristici e quindi non necessario“.
La Corte sottolinea come, attraverso gli interventi normativi, “la originaria disciplina del lavoro accessorio, quale attività lavorativa di natura meramente occasionale, limitata, sotto il profilo soggettivo, a particolari categorie di prestatori, e, sotto il profilo oggettivo, a specifiche attività, ha modificato la sua funzione di strumento destinato, per le sue caratteristiche, a corrispondere ad esigenze marginali e residuali del mercato del lavoro”. Una modifica che per la Corte “appare già emblematicamente attestata dal cambiamento della denominazione della rubrica del Capo II del d.lgs. n. 276 del 2003 in cui risultano inserite le originarie previsioni normative (‘Prestazioni occasionali di tipo accessorio rese da particolari soggetti’) rispetto a quella recata dal Capo VI del d.lgs. n. 81 del 2015, (‘Lavoro accessorio’), nel quale sono inseriti gli articoli di cui si chiede l’abrogazione referendaria, in quanto viene a mancare qualsiasi riferimento alla occasionalità della prestazione lavorativa quale requisito strutturale dell’istituto”. Infine il quesito “rispetta anche le indicazioni della giurisprudenza costituzionale relative alla chiarezza, omogeneità e univocità”.
Quesito sull’articolo 18 inammissibile perché “manipola il testo per ottenere una norma diversa da quella originaria” – Al contrario il quesito sull’articolo 18 “è inammissibile anzitutto a causa del suo carattere propositivo, che lo rende estraneo alla funzione meramente abrogativa assegnata all’istituto di democrazia diretta previsto dall’articolo 75 della Costituzione”. In pratica, scrive la Consulta, “manipola il testo vigente dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970 attraverso la tecnica del ritaglio, ovvero chiedendo l’abrogazione, quanto ai commi primo, quarto, sesto, settimo e ottavo, di frammenti lessicali, così da ottenere, per effetto della saldatura dei brani linguistici che permangono, un insieme di precetti normativi aventi altro contenuto rispetto a quello originario“. Infatti la formulazione del quesito scritto dal sindacato di Susanna Camusso andava oltre il ripristino dell’articolo 18, perché prevedeva l’estinzione del diritto alla reintegra nel posto di lavoro (in caso di scioglimento illegittimo del contratto da parte del datore) ai dipendenti delle aziende con un numero di dipendenti tra 5 e 15. Ma prima della riforma targata Renzi e Poletti, che ha introdotto i contratti a tempo indeterminato “a tutele crescenti”, il diritto a riavere il posto spettava solo ai lavoratori di imprese oltre i 15 addetti. Il referendum, anziché puntare alla semplice abrogazione della nuova normativa e al ritorno dello status quo ante, si sarebbe dunque configurato come “propositivo”, appunto. E in quanto tale non ammissibile.