Donald Trump blocca per quattro mesi l’accesso dei rifugiati in Usa e sospende per tre mesi gli ingressi dei cittadini provenienti da sette paesi islamici (Iraq, Iran, Siria, Somalia, Sudan, Libia e Yemen), giudicati a rischio terrorismo. L’ordine esecutivo firmato dal presidente Usa ha scatenato le proteste dei cittadini americani, che hanno manifestato negli aeroporti chiedendo il “rilascio” dei migranti fermati e l’accoglienza dei rifugiati. Contro la mossa del presidente domenica si sono schierati i procuratori generali di 15 stati e della capitale che hanno emesso una dichiarazione congiunta con cui condannano come incostituzionale il bando. Gli attorney general sostengono che la libertà religiosa è un principio fondamentale del Paese, auspicando che l’ordine esecutivo sia ritirato e impegnandosi nel frattempo a garantire che il minor numero possibile di persone soffrano per questa situazione. Gli Stati cui appartengono i firmatari sono, oltre a Washington, California, New York, Pennsylvania, Massachusetts, Hawaii, Virginia, Oregon, Connecticut, Vermont, Illinois, New Mexico, Iowa, Maine e Maryland.
Pimi avvertimenti anche dal Partito repubblicano. Mitch McConnell, leader della maggioranza al Senato, prende le distanze dall’ordine esecutivo. Alla Abc l’esponente del Grand Old Party ha detto che è positivo rafforzare i controlli sull’immigrazione ma, ha precisato, “penso anche che sia importante ricordare che alcune delle nostre fonti migliori contro il terrorismo islamico sono i musulmani, sia in questo Paese che all’estero. Dobbiamo stare attenti mentre lo facciamo”. Dalla Casa Bianca, intanto, smentiscono il caos negli scali. Il capo dello staff Reince Priebus, ha dichiarato che sabato 28 gennaio 325mila viaggiatori sono entrati nel Paese e solo 109 sono stati fermati. “Gran parte di loro sono usciti. Abbiamo ancora una ventina di persone che restano detenute”, ha sostenuto, prevedendo che saranno presto rilasciate se sono in regola.
Nel pieno della bufera, dalla Casa Bianca arriva una parziale retromarcia. Reince Preibus, capo dello staff, ha sostenuto che il bando non avrà effetti sui possessori della green card, che consente ad uno straniero di risiedere in Usa per un periodo di tempo illimitato. Il capo dello staff del presidente ha tuttavia sottolineato alla Nbc che gli agenti di frontiera hanno il “potere discrezionale” di detenere e interrogare i viaggiatori che arrivano da Paesi a rischio.
Sul fronte europeo, invece, il giudizio più duro contro Trump è arrivato dalla Germania, dove Angela Merkel ha bollato come “ingiustificato” il provvedimento. La cancelliera tedesca, ha spiegato il portavoce Steffen Seibert, “è convinta che anche la necessaria lotta al terrorismo non giustifica” una misura del genere “solo in base all’origine o al credo” delle persone. Ma è lo stesso presidente a rispondere via twitter a lei e agli altri leader europei – Hollande e May – che lo hanno criticato. “Il nostro Paese ha bisogno di confini forti e di controlli rigidi, ADESSO – ha scritto – Guardate a quello che sta succedendo in Europa e, anzi, in tutto il mondo – un caos orribile!”.
Our country needs strong borders and extreme vetting, NOW. Look what is happening all over Europe and, indeed, the world – a horrible mess!
— Donald J. Trump (@realDonaldTrump) January 29, 2017
Anche la Lega Araba ha preso posizione sul provvedimento. Il segretario generale della, Ahmed Aboul Gheit, si è detto “profondamente preoccupato” per le “restrizioni ingiustificate”, scrive l’agenzia egiziana Mena. Misure che, secondo l’organizzazione dei Paesi arabi, potrebbero produrre “effetti negativi“.
Da parte sua, dopo aver annunciato il 28 gennaio di voler applicare il “Principio di reciprocità”, dall’Iran – Paese incluso nella ‘black list’ – è arrivata la prima risposta ufficiale: il governo di Teheran ha convocato l’ambasciatore svizzero (che rappresenta gli interessi americani nel Paese) e gli ha consegnato una lettera di protesta contro lo stop agli ingressi. Nella missiva si sottolinea “l’approccio discriminatorio nei confronti dei cittadini iraniani”, spiegando che la decisione si basa su “pretesti infondati e discriminatori, inaccettabili, in contrasto con le convenzioni sui diritti umani” e “con l’accordo” tra i due Paesi del 1955.
Incurante delle proteste in tutto il mondo, Trump – riferisce la Cnn – avrebbe intenzione di andare anche oltre in quella che appare sempre di più come né più né meno che una caccia alle streghe sotto il pretesto della sicurezza. Secondo quanto rivelato da alcune fonti, il direttore per gli affari politici della Casa Bianca, Stephen Miller, starebbe discutendo con i funzionari del dipartimento alla Sicurezza interna la possibilità di chiedere ai visitatori stranieri quali sono i siti web ed i social media sui quali sono soliti navigare e di condividere i loro contatti sul cellulare. In caso di un loro rifiuto, potrebbe essere negato loro di entrare negli Stati Uniti.
Ruolo speciale per Bannon nel Consiglio nazionale per la sicurezza – E in un altro ordine esecutivo, Trump aggiunge un posto fisso nel Consiglio nazionale per la sicurezza (Nsc) per il suo chief strategist Steve Bannon, una delle figure più controverse della sua amministrazione, ridimensionando il ruolo del direttore della National intelligence (“troppo politicizzata” aveva accusato in passato) e del presidente dello Stato maggiore congiunto. Bannon, è ex finanziere e patron del sito di destra Breitbart News, strumento mediatico che ha suggellato l’alleanza fra Trump e i gruppi della destra radicale, all’insegna degli obiettivi comuni: guerra all’immigrazione, all’ingresso di rifugiati siriani e alla minaccia di un movimento come Black Lives Matter. Con la decisione del presidente, Bannon parteciperà a tutte le discussioni di alto livello, mentre gli altri due dirigenti, a differenza del passato, saranno ammessi solo quando si tratteranno questioni legate alle loro aree di competenza. Il National security Council, guidato dal generale Mike Flynn, è l’organo principale che consiglia il presidente sulla sicurezza nazionale e sugli affari esteri.
Hollande e May contro Trump. Proteste negli aeroporti Usa – L’ordine esecutivo sullo stop ai migranti ha incontrato anche la netta opposizione del giudice federale di New York che ha emanato un’ordinanza straordinaria per impedire i rimpatri forzati. Primi ministri, scrittori, intellettuali e docenti universitari, così come cittadini e guru della Silicon Valley hanno poi protestato per ore al Jfk di New York come in altri aeroporti. In Europa, il primo paese a contestare il blocco è stato la Francia, seppure restando nella dialettica della diplomazia. Il presidente francese Francois Hollande nella telefonata con Donald Trump ha sottolineato la convinzione della Francia che “la battaglia avviata per la difesa delle nostre democrazie sarà efficace soltanto se inserita nel rispetto dei principi su cui sono fondate, in particolare l’accoglienza dei rifugiati“. L’Eliseo ha poi aggiunto che “di fronte a un mondo instabile e incerto, ripiegarsi su se stessi è un atteggiamento senza sbocco”. Paolo Gentiloni, invece, si è limitato a un tweet: “L’Italia è ancorata ai propri valori. Società aperta, identità plurale, nessuna discriminazione. Sono i pilastri dell’Europa”.
Anche al premier britannico Theresa May non piace l’iniziativa degli storici alleati. Il suo portavoce ha affermato oggi che il primo ministro “non è d’accordo” con il decreto esecutivo e sfiderà il governo americano qualora il bando dovesse avere un effetto negativo sui cittadini britannici. La presa di posizione avviene poche ore dopo che la stessa May, nel corso della sua visita sabato 28 gennaio in Turchia, si era rifiutata di commentare il bando deciso. Si tratta di una decisione, aveva affermato, che riguarda gli Stati Uniti. E anche il ministro degli Esteri britannico, il conservatore Boris Johnson, si schiera contro il bando. “Proteggeremo i diritti e le libertà dei cittadini del Regno Unito in patria e all’estero. E’ divisivo e sbagliato stigmatizzare in base alla nazionalità”, ha twittato Johnson, alfiere di quella Brexit lodata apertamente da Trump. May ha quindi ordinato ai suoi ministri degli Esteri e dell’Interno, Johnson e Rudd, di parlare con i loro omologhi negli Usa delle limitazioni sull’immigrazione imposte dal Paese.
Dal Canada arriva invece l’invito del premier ai rifugiati. “A chi fugge dalle persecuzioni dal terrore e dalla guerra, sappiate che i canadesi vi daranno il benvenuto, non importa quale sia la vostra fede. La diversità è la nostra forza #welcome to Canada”, twitta il primo ministro canadese Justin Trudeau che ha anche postato una foto del 2015 in cui saluta una bambina siriana all’aeroporto di Toronto. Una portavoce del premier, Kate Purchase, ha spiegato che Trudeau ha un messaggio per Trump: “Il premier non vede l’ora di esaminare con il presidente nel loro prossimo incontro i successi delle politiche del Canada sull’immigrazione e sui rifugiati”.
Giudice federale blocca rimpatrio forzato
Intanto Ann Donnelly, giudice federale di New York, ha emesso un’ordinanza di emergenza che temporaneamente impedisce agli Stati Uniti di espellere i rifugiati che provengono dai sette paesi a maggioranza islamica soggetti all’ordine esecutivo emanato dal presidente. L’ordinanza di emergenza del giudice Donnelly annulla una parte dell’ordine esecutivo del presidente Donald Trump sull’immigrazione, ordinando che i rifugiati e altre persone bloccate negli aeroporti degli Stati Uniti non possono essere rimandate indietro nei loro paesi. Ma il giudice non ha stabilito che queste stesse persone debbano essere ammesse negli Stati Uniti né ha emesso un verdetto sulla costituzionalità dell’ordine esecutivo del presidente. I legali che hanno citato in giudizio il governo per bloccare l’ordine della Casa Bianca hanno detto che la decisione, arrivata dopo un’udienza di urgenza in una corte di New York, potrebbe interessare dalle 100 alle 200 persone che sono state trattenute al loro arrivo negli aeroporti statunitensi subito dopo l’entrata in vigore dell’ordine esecutivo che il presidente ha firmato venerdì pomeriggio, una settimana dopo il suo insediamento.
Proteste da New York a San Francisco
Migliaia di cittadini in tutto il Paese sono scesi in strada per protestare. Circa 2mila persone, tra cui alcune celebrità, si sono riunite davanti al John F. Kennedy Airport di New York, causando anche alcuni disordini. L’agenzia che gestisce lo scalo ha tentato di ostacolare l’afflusso dei manifestanti fermando i treni che portano ai terminal, ma il governatore dello stato di New York, il democratico Andrew Cuomo, ha cancellato la misura, affermando che la gente ha il diritto di protestare. Anche i tassisti di New York protestano con uno sciopero di un’ora che ha lasciato, ieri sera dalle 6 alle 7, vuoti i parcheggi dell’aeroporto Jfk. “Non possiamo non reagire a questo divieto inumano e anticostituzionale”, hanno twittato i tassisti, molti dei quali sono immigrati appartenenti alla comunità islamica. E in serata le persone sono tornate nuovamente a radunarsi, questa volta a Battery park, l’estrema punta di Manhattan di fronte alla Statua della Libertà.
E manifestazioni ci sono state anche nel vicino aeroporto di Newark, in New Jersey, dove si sono radunate circa 120 persone con cartelli contro l’ordine esecutivo di Trump. Anche all’aeroporto di Denver, in Colorado, decine di manifestanti si sono riunite davanti al locale scalo internazionale, così come a Chicago, all’aeroporto O’Hare, si è radunata una piccola folla e diverse persone sono state arrestate. Secondo quanto riferisce la stampa locale, anche diversi passeggeri in arrivo allo scalo si sono uniti ai manifestanti. Simili manifestazioni si sono svolte anche a Dallas, Seattle, Portland, San Diego. A Los Angeles, circa 300 persone sono entrate nel terminal dopo aver inscenato una veglia a lume di candela. E ancora, a San Francisco, centinaia di persone hanno bloccato la strada che porta allo scalo per esprimere la loro protesta.
Alzata di scudi anche dalla Silicon Valley, quella che più ha beneficiato dei talenti oltreoceano. Il fondatore di Facebook Mark Zuckerberg si è detto preoccupato dalla stretta sui migranti esortando il presidente a mantenere aperti i confini degli Stati Uniti ai rifugiati che hanno bisogno di un posto sicuro e a non deportare milioni di persone senza documenti che non pongono alcuna minaccia alla sicurezza nazionale. Sulla stessa lunghezza d’onda i dirigenti di Twitter e Google, quest’ultima affrettatasi a far rientrare il prima possibile circa 100 suoi dipendenti provenienti dai Paesi islamici.
Anche il mondo della cultura è sceso in campo. “Mi si spezza il cuore nel vedere che oggi il presidente Trump chiude la porta ai bambini, alle madri e ai padri che fuggono dalla violenza e dalla guerra”, ha scritto su Facebook il premio Nobel per la pace 2014 Malala Yousafzai.