C’è la desolazione, certo. Che nasce dalla consapevolezza di aver perso tanto, in alcuni casi tutto. E c’è lo sconforto, “un principio di rassegnazione che fai di tutto per ricacciarlo indietro, ma alla fine non puoi rimuoverlo fino in fondo, quando ti ritrovi davanti a certe scene”. Ma c’è pure “la voglia di ripartire”, una sorta di frenesia che si concretizza in progetti, speranze, desiderio di dimostrare che resistere si può. “Si deve”. Ed è proprio quest’ansia di ricominciare che genera la rabbia. Rabbia per gli aiuti: “Arrivati in ritardo, pochi e difettosi”. Rabbia per le lentezze di “una burocrazia assurda, che spesso complica più problemi di quanti non ne risolva”. E rabbia per quello che si sarebbe potuto fare, per evitare i disagi attuali, e non è stato fatto.
A due settimane dalle scosse che hanno di nuovo colpito il Centro Italia, e che insieme alla neve hanno messo in ginocchio molti comuni appenninici di Lazio, Abruzzo e Marche, gli allevatori locali si ritrovano nel bel mezzo di un’emergenza che inizialmente è stata sottovalutata, e ora si preannuncia lunga e faticosa come non mai. “Siamo gente di montagna, a rialzare la testa dopo una batosta siamo abituati: ma stavolta è davvero dura”, dicono in tanti. Qualcuno – ci si basa su singole testimonianze, perché per avere un quadro puntuale è ancora presto – decide di mollare, vendere stalle e bestiame e trasferirsi in città: L’Aquila, Ascoli, Rieti, Roma. Altri invece non desistono: “Ci siamo nati e cresciuti, quassù. Ma pretendiamo che le istituzioni ci aiutino: subito, ora”.