“Montalbano sono”. Se c’è un divo italiano che deve tutto al piccolo scatolino della tv si chiama Luca Zingaretti. E quando la tv italiana, ovvero Sanremo, chiama, Zingaretti c’è. Il maestro Manzi dello sceneggiato tv, l’icona nazionalpopolare dell’uomo rude e onesto, il calvo omaccione nel paese di barbe e capelli neri, è protagonista di una crescita di popolarità esponenziale che nemmeno Michele Placido ne La Piovra o Kabir Bedi in Sandokan. Il 6 maggio del 1999, dopo una decina d’anni di filmetti, di apostolo Pietro e Pietro Nenni in tv, bastano un paio di pose alla Salvo Montalbano e Luca Zingaretti diventa l’archetipo del commissario televisivo a vita. Lui ha un bel da dire, ma il personaggino inventato dalla sadica penna di Andrea Camilleri non gli si è più tolto di dosso, nonostante una finta pausa tra il 2008 e il 2011, o quella più lunga dal 2013 al 2016. Giusto il prossimo marzo vedremo due nuove puntate, “Il covo di vipere” e “Come voleva la prassi” che, secondo Camilleri, mettono in scena un Montalbano in difficoltà anche a livello privato e personale. “Non mettere in scena il personaggio, fallo”, pare gli abbia detto lo scrittore siciliano al cospetto delle riprese del primo episodio del suo commissario oramai vent’anni fa. E Zingaretti l’ha talmente “fatto” da restarne come intrappolato. Noi che gli vogliamo bene, capiamo che ad un vulcanico e potente performer come lui, una nuova maschera, un nuovo incarico professionale, di certo gli donerebbero una luce ancor più viva e brillante che andrebbe oltre il marchio di fiducia modello Signora in giallo/Jessica Fletcher/Angela Lansbury.
Lo ricordiamo provare a recitare in diversi film su grande schermo, imbrigliato troppo spesso nel ruolo del burbero e stronzo marito come ne I giorni dell’abbandono di Roberto Faenza (2005); il solito riccone prepotente in A casa nostra (2006); lo chef sciupafemmine nel ridicolo Tutte le donne della mia vita (2007); o ancora mascella volitiva per il bell’Osvaldo Valenti, star del ventennio non proprio pulita, in Sanguepazzo di Marco Tullio Giordana (2008). Ogni volta un tentativo di andare oltre la battuta in siciliano, di tratteggiare un carattere che non sia quello del commissario affacciato sul mar Mediterraneo. Invece niente. Il pubblico televisivo non è quello cinematografico, ed è ancor più diverso da quello teatrale. Ma soprattutto il primo è più numeroso, anzi straccia letteralmente gli altri due. Giocoforza, Montalbano è il doppio specchio dove si riflette fortuna e sfortuna del mito. Solo in quel Francesco Crispi, a cui ha dato vigore e spessore, traditore degli ideali mazziniani e risorgimentali, autore di una politica spregiudicatamente coloniale, con un signor regista come Mario Martone, Zingaretti ha saputo dare il meglio di sé in una squadra d’attori infinita nel cast di Noi Credevamo (2010).
Gioco di squadra, appunto. Luca, 56 anni, una vita da mediano (del Rimini calcio) lasciata per entrare all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica, due figlie piccole avute con Luisa Ranieri, seconda moglie, conosciuta mentre interpretava un altro dimenticato e sacrificato sergente dell’esercito italiano per il televisivo Cefalonia, ha sempre raccontato di sentirsi in ritardo per qualunque cosa. “Ho fatto tutto con dieci anni di ritardo. Mi sono sposato a 34 anni, sono diventato “conosciuto” dopo i 35 mentre tanti colleghi erano già famosi a venti. E ho avuto il primo figlio a 50. Vorrà dire che mi toccherà vivere dieci anni in più del previsto”. Attendiamo rigorosamente in ritardo un grande profilo memorabile oltre Montalbano. La sua salvezza. Un nostro atteso piacere.