Venerdì 21 maggio 2010 accadde un fenomeno singolare. Sul Giornale, lo stesso quotidiano che oggi si distingue per la virulenta campagna anti-euro fu pubblicato un pezzo che conteneva una domanda: “Perché uno Stato debba essere attirato dall’idea di riprendersi la dracma o l’escudo [o la lira, aggiungiamo noi]”. La spiegazione era secca: “Svalutare la moneta per uno stato è come abbassare prezzi [delle esportazioni, NdA] e stipendi […] rendendo la produzione domestica più economica e quindi competitiva sui mercati esteri”.
Per chi non avesse afferrato il punto ripetiamo in termini semplici: quando si svaluta una moneta l’effetto più doloroso è quello di far crollare i salari, vale a dire ciò che i no-euro sovranisti (al cui lessico si sono appecoronati i Fassina e gli tsipristi assortiti) definiscono “svalutazione salariale”.
Ma il misterioso autore incalzava: “Anche il problema del debito verrebbe aggirato, in quanto una Banca Centrale nazionale potrebbe comprare titoli del debito pubblico praticamente “stampando denaro” e consumando il debito con la relativa inflazione”. Traduzione per gli inebetiti: i detentori di titoli di Stato italiano verrebbero trapanati dallo Stato (come se non fossero già trapanati abbastanza) vedendosi rifilata carta straccia inflazionata al posto di titoli in valuta pregiata.
Per cui l’autore giustamente avvertiva (e qui vale la pena di riportare tutto verbatim): “Ci sono tuttavia dei ‘ma’ davanti a questa tentazione, talmente grossi da risultare quasi insormontabili. Il primo è che “l’opzione di uscita” dall’unione monetaria non è prevista da alcun trattato, quindi abbandonare l’euro significherebbe abbandonare unilateralmente anche l’Ue, con presumibile immediato ritorno delle dogane e dei dazi attorno al paese, ormai ex euro, come ritorsione contro la “furbata” della svalutazione. Il secondo problema è legato alla facilità di spostamento dei capitali: prevedendo una svalutazione della “nuova” moneta, nel momento in cui anche solo si iniziasse a discutere di un cambio di valuta, tutti tenterebbero di spostare i propri euro fuori dai confini nazionali salvandoli dalla conversione forzata per poterli rimpatriare in un secondo momento con un valore maggiore: bisognerebbe quindi imporre un divieto immediato di esportazione dei capitali fino alla conversione, cosa assai più facile a dirsi che a farsi in un’Europa da tempo senza barriere”.
Ma le previsioni catastrofiche sull’uscita dall’euro e il recupero della sovranità monetaria non finivano qui, anzi si intensificavano in un crescendo di disastri annunciati.
“In realtà la questione del posizionamento della moneta “fisica” e della sua delocalizzazione per aggirare il cambio in valuta locale è addirittura minimale rispetto all’enorme problema dei contratti. Per la maggior parte dei cittadini, infatti, l’ammontare di denaro liquido che si detiene è ben poca cosa se paragonata con gli impegni che ci coinvolgono, siano essi attivi (come i risparmi investiti in titoli di stato) o passivi (come il mutuo che dobbiamo alla banca) o continuativi (come lo stipendio previsto dal nostro contratto di lavoro). Ebbene, […] o si cambia solo la moneta (e quindi si ridenominano solo i prezzi dei beni e i salari, lasciando immutati gli impegni finanziari a suo tempo sottoscritti in euro), o si cambia forzatamente tutto.
Nel primo caso si rischiano grandi insolvenze, dato che un debitore si troverebbe nell’antipatica situazione di dover estinguere un mutuo in euro con uno stipendio percepito in valuta locale svalutata; stesso problema dello Stato che dovrebbe ripagare il suo debito pubblico in euro mentre incassa tasse in moneta di valore minore, con conseguente esplosione del rapporto debito/Pil.
Nel secondo caso, invece, si tratterebbe di un cambio unilaterale con effetti internazionali delle condizioni di un contratto, dato che il detentore straniero di un titolo di Stato emesso in euro pretende, a ragione, che il suo denaro gli venga restituito nella stessa moneta in cui è stato prestato. Sarebbe quindi nient’altro che un default dello Stato (dato che con questa parola si intende il non mantenimento delle proprie obbligazioni) e allora, default per default, tanto varrebbe alzare bandiera bianca prima e ristrutturare il debito senza infilarsi nel ginepraio del cambio di moneta. Insomma, un gran pasticcio”.
Ma il pasticcio più grande è il mistero sull’identità dell’autore. Già perché sul sito web de Il Giornale sono sparite tutte le tracce di quella lucida analisi. Come nell’orwelliano 1984 o nelle fotografie d’archivio del Politburo sovietico, un burocrate piccolo piccolo ha ritenuto di dover cancellare la storia.
E allora chi mai potrà aver vergato di suo pugno queste ferali parole? Senza dubbio alcuno un lacché della Merkel, un pasdaran dell’euro, un autorazzista, un subdolo euroburocrate, un banchiere centrale che ha venduto l’anima al capitale, un finanziere che specula sulla pelle della gente, un Rothshild, il vertice del Bilderberg, un potere forte che stritola il popolo. Insomma, si chiederanno i cervelli imbevuti di slogan e parole d’ordine grillo-fascio-leghiste, chi sarà l’immondo depravato?
Ebbene l’autore risponde al nome di Claudio Borghi Aquilini (ma Non Vien dal Mare) ed è (o quantomeno gli fanno credere di essere), il responsabile economico della Lega. I legaioli rimarranno paralizzati. Ma non si tratterà mica di quel Borghi che sbraita in TV contro l’euro e per recuperare la sovranità vilipesa dai feroci teutonici che ci strangolano con la deflazzzione salariale e la bilancia dei pagammmenti? Insomma non sarà mica il consigliere di Banca Arner miracolato da Salvini che lo ha paracadutato docilmente su una cadrega in Toscana?
Cari sovranisti, cercate il più vicino defibrillatore, perché trattasi di lui di pirzona pirzonalmente. E cosa sarà cambiato in questi anni per indurlo a percorrere il tormentato tragitto dall’euro entusiasmo coltivato negli uffici della Deutsche Bank ai peggior bar di Pescaracas?