Ufficialmente Ri Jong Chol, uno dei fermati per la morte del fratellastro di Kim Jong Un a Kuala Lumpur, lavorava per una ditta che commercializza prodotti d’erboristeria. Ma in tre anni non si è mai presentato sul posto di lavoro della ditta tramite la quale aveva ottenuto il visto. “Si trattava soltanto di una formalità per i documenti” ha spiegato in un’intervista alla Reuters Chong Ah Kow, l’uomo che garantiva per lui. Da questa conversazione emerge uno spaccato della vita semi-normale condotta da nella capitale malaysiana. Il nordcoreano lavorava nel reparto It dell’azienda, la Tombo Enterprise, fondata nel 1976 e specializzata nella distribuzione di Tian Xian, una sostanza a base di funghi, ginseng della quale si decantano le proprietà anti-cancerogene. Ogni mese incassava l’equivalente di 1.200 dollari.
Questo almeno sulla carta, perché lo stesso Chong ha ammesso di non sapere chi lo pagasse veramente. Un fantasma in pratica, almeno per i colleghi. Meno per il suo sponsor, che ammette di aver mantenuto con Ri un rapporto di amicizia. Di lui si sa che viveva con la moglie e due figli in un appartamento nella periferia delle capitale, in uno di quei quartieri frequentati dalla middle-class. La figlia studia alla Help University, un college privato salito agli onori delle cronache nel 2013 per aver conferito un dottorato honoris causa allo stesso Kim Jong Un, premiando gli sforzi del giovane dittatore “per l’istruzione e il benessere del popolo”.
Un modo per “costruire un ponte con Pyongyang per rapportarsi al regime in modo costruttivo”, spirgò all’epoca il presidente dell’ateneo, Paul Chang, collegando la sua scelta alle aperture di Henry Kissinger verso la Cina, negli anni Sessanta del secolo scorso. Proprio nel 2013 Ri incontrava per la prima volta Chong. Il contatto malaysiano era da tempo un estimatore della Corea del Nord, Paese nel quale, ha spiegato, è stato una decina di volta e del quale ammira la cultura. L’intera vicenda dell’assassinio di Kim Jong Nam ha di fatto incrinato le relazioni tra Pyongyang e Kuala Lumpur. Per almeno 30 anni la Malaysia è stato uno dei Paesi amici del regime. O per lo meno uno dei Paesi a intrattenere un rapporto normale, tanto da permettere ai nordcoreani di viaggiare senza visto nel regno.
A ottobre 2016 Kuala Lumpur è inoltre stata sede di colloqui tra i ex diplomatici statunitensi e inviati dei Kim. Ma adesso le autorità locali puntano il dito direttamente contro diplomatici nordcoreani, accusati di aver avuto un ruolo nella morte di Kim. Oltre a Ri, sono stati fermati un uomo con passaporto malaysiano e due donne, una vietnamita e una indonesiana. Ora la polizia intende interrogare il secondo segretario dell’ambasciata nordcoreana Hyon Kwang Song. Assieme al diplomatico sono ricercati anche un impiegato della compagnia di bandiera Air Koryo, che si ritiene sia ancora in Malaysia, e a altri cinque nordcoreani, che dovrebbero comunque già essere riusciti a riparare a Pyongyang. La polizia malaysiana ha inoltre denunciato il tentativo di furto del cadavere del fratellastro di Kim Jong Un. Da subito il regime si è opposto all’autopsia chiedendo indietro il corpo, ma senza successo in attesa di avere un campione di dna dalla famiglia per poterlo identificare con certezza. Una resistenza, quella nordcoreana, che fa apparire sempre più credibile il coinvolgimento in quello che il governo della Corea del Sud ha definito senza mezzi termini, “un atto di terrorismo”.
di Andrea Pira