Il seggio di Augusto Minzolini è stato salvaguardato. Il rispetto della Costituzione, forse, un po’ meno. E ora bisogna affrettarsi a trovare la motivazione che giustifichi, in maniera credibile, il perché del soccorso Pd nei confronti dell’ex direttore del Tg1. Oppure scegliere un’altra strada: negarsi, riagganciare il telefono, liquidare tutto come “una cazzata”.
L’elemento più ricorrente, nelle spiegazioni fornite dai 19 senatori del Pd che hanno votato “Sì” all’ordine del giorno proposto da Forza Italia, è un nome: Giannicola Sinisi. Magistrato, ex esponente del centrosinistra, ex sottosegretario nel primo governo Prodi e poi in quelli di Massimo D’Alema, poi tornato ad indossare la toga. È la sua presenza tra i giudici della Terza Corte d’Appello di Roma, quella che nell’ottobre del 2014 condannò Minzolini in secondo grado a 2 anni e 6 mesi per peculato continuato, a rendere “evidente il fumus persecutionis”. Evidente, sì. Ne è convinta ad esempio Emma Fattorini, che come i suoi colleghi è categorica anche nel negare che la votazione di oggi a Palazzo Madama costituisca un precedente nella definizione dei rapporti tra politica e magistratura: “Il Parlamento come quarto grado di giudizio? Ma non scherziamo. Non esiste”. Ciò che esiste, invece, secondo i senatori Pd pro-Minzolini, è l’ossessione giustizialista di alcuni giornali: “Voi del Fatto, si sa, siete un po’ forcaioli”.
C’è chi, come Luigi Manconi, non si sottrae. “Rivendico il mio voto. Spiegarlo? È semplicissimo. Premetto che io stimo Sinisi, perché ho collaborato proficuamente con lui quando è stato sottosegretario al ministero dell’Interno tra il ’96 e il ‘99. Ora, io ritengo sbagliato che lui, dopo una lunga carriera politica nelle file del centrosinistra, non si sia astenuto quando si è ritrovato a far parte della Corte d’Appello che era chiamata a giudicare su un appartenente allo schieramento avversario. Tutto qui”. Giorgio Tonini aggiunge un altro dettaglio: “Se guardiamo le carte, ci accorgiamo che la sentenza d’Appello è stata particolarmente pesante. Non solo ha ribaltato l’assoluzione in primo grado e quella da parte della Corte dei Conti, ma ha addirittura comminato una pena superiore a quella della richiesta fatta dall’accusa. Guarda caso, proprio in virtù di quell’inasprimento, è potuta scattare l’applicazione della Legge Severino”. A sentire i 19 dem, anche l’atteggiamento di Minzolini ha avuto il suo peso. Commenta Fattorini: “La spiegazione in Aula di Minzolini è stata convincente. E inoltre la garanzia che lui ci ha dato di dimettersi all’indomani del voto ha influito nel nostro giudizio sull’intera vicenda”.
Ugo Sposetti, che riaggancia subito: “Ho già detto ad un vostro collega che quando c’è un conflitto tra politica e magistratura io sto sempre dalla parte della politica”. Non vorrebbe provare ad argomentare meglio? “Ho già parlato troppo con voi del Fatto, per oggi. Quindi basta”. Ma in quel collegio in Corte d’Appello non c’era solo Sinisi. “No, certo che no?”. E allora? “Allora cosa?”. Allora risulta difficile sostenere con certezza che la presenza di un solo giudice politicamente schierato abbia potuto inquinare la decisione dell’intero collegio. “Certo – concede Manconi – ma si tratta comunque di una questione di forma che ha un enorme significato anche di sostanza e di politica”.
Seconda obiezione: dopo il pronunciamento della Corte d’Appello, è comunque intervenuto il vaglio della Cassazione, che accogliendo la sentenza di condanna ha di fatto ritenuto corretta la scelta del collegio di cui faceva parte Sinisi. Inutile provare a chiedere un chiarimento, su questo punto, a Mario Tronti. Il senatore – anziano filosofo, comunista ai tempi di Berlinguer – si limita ad un laconico sbuffo: “Io non do nessuna spiegazione, grazie”. Prego. Bisogna affidarsi, allora, di nuovo a Manconi. “Ma il voto del Senato di oggi non invalida né inficia la sentenza della Corte di Cassazione. La condanna a Minzolini resta definitiva”. Ma Minzolini può restare senatore. “Noi ci siamo limitati a riscontrare la presenza di fumus persecutionis”, precisa Tonini. “Il fumus non è arrostus. Basta il ragionevole dubbio di distorsione politica di una sentenza, e in quel caso è necessario tutelare l’integrità della persona. Del resto lo dicevano anche i Romani: in dubio pro reo”.
Il dato è che nessuno parla della legge che al Senato andava applicata, cioè la legge Severino. L’ordine del giorno di Forza Italia di fatto si opponeva all’applicazione della legge, non chiedeva ai senatori di commentare una sentenza di condanna passata in giudicato. Lo precisava anche la Giunta per le Autorizzazioni – che nel luglio scorso si era espressa a favore della decadenza – nella relazione poi approdata in Aula, laddove sottolineava che “il tema del fumus persecutionis” risultava “ultroneo” (cioè estraneo) al caso in questione, nel quale “la procedura è finalizzata ad accertare la sussistenza di una causa di incandidabilità”, derivata da una sentenza definitiva superiore a 2 anni per reati contro la pubblica amministrazione: stop. Ed era proprio il caso di Minzolini. Insomma, siamo sicuri che i senatori del Pd avessero ben chiaro su cosa si stesse votando?
A sentire Massimo Mucchetti, è inutile domandarselo. “Io ho votato secondo coscienza, ma in questi giorni mi sto occupando di grandi aziende partecipate. Di fronte a simili questioni, la vicenda di Minzolini a me sembra una cazzata”. Può darsi, certo, che Eni e Enel siano più importanti della decadenza di un senatore. Ma la notizia di Minzolini è comunque quella che occupa le prima pagine di tutti i giornali: “Ed ecco perché non vi legge più nessuno”.
Insomma, nessuna vergogna. “Al contrario: io mi sento di aver agito nel pieno rispetto della Costituzione, che appunto sancisce l’indipendenza della politica dalla magistratura”, insiste Tonini. Pietro Ichino, anche lui tra i 19 a votare Sì, è ancora più convinto: “Se, di fronte ad un iter processuale anomalo come quello che ha riguardato Minzolini, il Parlamento chiudesse gli occhi, allora tanto varrebbe che la legge prevedesse la decadenza automatica del parlamentare. E di fronte a questa prospettiva, sarebbe bene ricordare cosa sta accadendo in Turchia”. Ma qui siamo in Italia, e francamente risulta quantomeno anomalo che un Senato chiamato a pronunciarsi sulla decadenza di un suo membro finisca col ribaltare una sentenza di Cassazione. Manconi giura che non è così: “Lo so, l’umore popolare porta a vedere questo come un quarto grado di giudizio. Ma la politica non può essere subalterna al sentito dire: altrimenti forse dovremmo reintrodurre la pena di morte domani mattina”.