L’allievo, l’amico, “l’assistente di una vita”. Di Marco Biagi, Michele Tiraboschi non ha solo ereditato la cattedra all’università di Diritto del lavoro all’università di Modena e Reggio Emilia. Ne è stato il collaboratore più fidato per oltre 10 anni, a partire dal 1991; gli è rimasto a fianco durante tutta la stesura del Libro Bianco, il testo che avrebbe poi portato alla riforma del mercato del lavoro nel 2003. Se gli si chiede di definire il loro rapporto, lo fa d’istinto: “Era un po’ come se fossimo in una bottega artigiana. Io l’apprendista e lui il maestro”.
Anche quel 19 marzo di 15 anni fa lo avevano passato insieme. Tiraboschi ricorda tutto con esattezza: le ore trascorse in università ad elaborare un progetto per l’occupabilità degli studenti, il viaggio in treno, uno accanto all’altro, da Modena verso Bologna, l’ultimo saluto in stazione. “Lo vidi slegare la sua bicicletta e andarsene. Ci ripenso e mi domando: se magari avesse preso un taxi, chissà… Ma in fondo il suo coraggio aveva sempre avuto delle tracce d’incoscienza”. La notizia gli arrivò qualche minuto più tardi. “Una mia allieva mi telefonò: ‘Ma è vero quello che dicono alla televisione?’. Io non sapevo ancora nulla, in quel momento mi chiamò la moglie del professore. Quando arrivai di corsa sotto casa sua, c’erano già gli inquirenti”.
A distanza di 15 anni dall’attentato di Via Valdonica, dove un commando delle Nuove Brigate Rosse uccise il 52enne giuslavorista bolognese a colpi di pistola, Tiraboschi spera che “finalmente si possa dare una lettura lucida, pacificata, dell’opera di Marco Biagi”. E in particolare una cosa, ci tiene a premettere: “Vorrei che fosse ricordato come un sincero riformista. Pragmatico, certo, ma anche ostinato nella sua ansia di favorire il cambiamento. Ha sempre praticato il compromesso. Da uomo di sinistra, non restò indifferente di fronte ai 3 milioni di persone che riempirono il Circo Massimo contro la sua proposta di modificare l’articolo 18, eppure non ha mai considerato il sindacato un arnese da rottamare. A differenza di certi sedicenti riformisti di oggi. Matteo Renzi, ad esempio, sul Jobs Act ha agito da cinico, senza visione né progetto, e ha usato le leggi sul lavoro per dimostrare di essere il più forte di tutti, attaccando il sindacato per creare consenso politico. Ecco, Marco Biagi aveva un approccio diametralmente opposto”.
Professor Tiraboschi, il nome di Marco Biagi, oggi, resta legato soprattutto alla riforma del lavoro del 2003. Una riforma ambiziosa e innovativa, ma che – secondo le letture più critiche – ha anche inaugurato una stagione di progressiva precarizzazione.
Bisogna fare chiarezza, e soprattutto ricordare quale era lo scenario italiano alla fine degli anni Novanta. L’obiettivo principale che Biagi si propose, con quel suo progetto, fu quello di aumentare il tasso di occupazione, allora fermo al 51% anche a causa del lavoro nero o non dichiarato. Dalle donne agli over 50, dai giovani ai neet, coloro che non studiano né lavorano, un esercito di inattivi veri o presunti, ma quasi sempre scoraggiati. La quota che volevamo raggiungere era il 70%: si è arrivati, al massimo, al 60% prima della crisi del 2008.
E fu in nome di questa volontà di allargare la base occupazionale che s’introdussero nuove forme di lavoro, perlopiù precarie?
Sì, però qui va precisato che la legge approvata dal Parlamento nel febbraio del 2003, a seguito di un iter molto accidentato che si accelerò solo dopo l’assassinio di Biagi, è una legge monca.
Monca?
Sì, perché non ha recepito una parte fondamentale della proposta di Biagi. Quella che introduceva degli strumenti di monitoraggio rigorosi e condivisi non solo da Inps, Istat e ministero del Lavoro, ma anche dai sindacati, Confindustria e gli altri corpi intermedi.
Un modo per evitare il balletto dei numeri, coi politici che a, seconda delle convenienze, di volta in volta scelgono qual è la statistica di cui tener conto?
Certo. Ma anche per controllare con costanza l’andamento del mercato del lavoro. Capire ciò quali effetti avrebbe provocato nel corso degli anni la nuova legge in un sistema fino ad allora molto ingessato, e correggere le eventuali distorsioni.
Distorsioni che in effetti si sono verificate. O no?
Molte sono riconducibili alla cattiva fantasia di consulenti e legali, che sfruttano qualsiasi varco per creare scorciatoie. Prendiamo i tirocini: introdotti per avviare i giovani alla professione, vengono usati al posto dei contratti ordinari. Insomma: la legge non ha funzionato brillantemente in alcuni suoi aspetti, ma ciò anche a causa del fatto che strumenti giusti sono stati piegati a fini sbagliati.
Un discorso che vale anche per i voucher, introdotti proprio dalla Legge 30?
Biagi non avrebbe mai accettato di mantenere immutato il mercato del lavoro italiano di allora, il peggiore d’Europa. Ma mai avrebbe neppure sponsorizzato una liberalizzazione selvaggia dei voucher come quella che c’è stata. Lo ha scritto più volte: non è la deregolamentazione che crea lavoro.
L’errore fondamentale, all’epoca, fu insomma quello di dimenticarsi la parte della legge che impegnava il governo a correggere le storture che sarebbero emerse col tempo?
È l’errore atavico della legislazione italiana nel campo del lavoro. In altri Paesi si ricorre a simulazioni d’impatto preventive, da noi si cambia in gran fretta senza pensare ai contrappesi da inserire. E così si aumenta la flessibilità senza pensare a compensazioni sul piano delle tutele. Non funziona: e anche il Jobs Act sta lì a dimostrarlo.
Si riferisce alle politiche attive?
La promessa alla base del Jobs Act era: liberalizziamo i licenziamenti ma al contempo creiamo strutture che prendano in carico chi resta senza lavoro. Dopo 3 anni, le politiche attive sono inesistenti.
A tal proposito, pochi giorni prima di morire, Biagi definì “uno scandalo” il fatto che i servizi per l’impiego non funzionassero. “Perché naturalmente – disse – chi è capace trova lavoro da solo e chi non ha una famiglia abbiente, non ha delle amicizie o non si mette in certi circuiti non trova lavoro”. Non sembra cambiato molto, in questi 15 anni.
E certo non cambierà grazie al Jobs Act, che è una riforma nata morta, visto che era subordinata alla vittoria del referendum del 4 dicembre. E sappiamo come è andata. L’Anpal, ad esempio, pretende di avere, sulle politiche attive, competenze nazionali che però la Costituzione attuale non gli riconosce.
Si prevedeva anche di centralizzare i poteri sul funzionamento dei centri per l’impiego.
Come se fosse possibile dare per scontata la vittoria del Sì al referendum. E invece ora ci ritroviamo una grande facilità di licenziare e nessuna garanzia di reinserimento. A distanza di 3 anni dall’entrata in vigore del Jobs Act, Paolo Gentiloni spedisce la bellezza di 30mila lettere per la ricollocazione: una barzelletta, se è vero che i disoccupati, secondo l’Istat, sono 3 milioni.
Nel presentare questa iniziativa, il premier ha appunto ricordato la figura di Marco Biagi. Non è la prima volta che nel dibattito sul Jobs Act il suo nome viene tirato in ballo. Le sembra corretto?
Assolutamente no. Inutile chiedersi in che modo Biagi avrebbe giudicato questa legge. Ci tengo però a sottolineare un paio di cose.
Prego.
Innanzitutto il Libro Bianco guardava al futuro e alle esigenze della nuova economia, mentre Jobs Act è rannicchiato sul passato. In secondo luogo, Biagi riteneva fondamentale il confronto con le parti sociali perché sapeva che una legge deve essere duttile, cioè trovare varie applicazioni nei diversi settori. E questo lo si ottiene solo dialogando coi sindacati e i corpi intermedi, tutte categorie che i teorici del Jobs Act considerano dei rottami.
Al funerale di Biagi, 15 anni fa, molti rappresentanti sindacali disertarono. Mercoledì scorso, per la sua commemorazione al Senato, erano presenti i leader sia della Cgil sia di Cisl e Uil. Un segnale importante?
Io spero che si esca da questa logica di contrapposizione intorno alla figura di Marco Biagi. Che può aver commesso, da studioso e da uomo, alcuni errori. Ma che era motivato da una assoluta buona fede. Del resto, furono proprio le ingiuste accuse di tradimento che gli caddero addosso quando, da riformista di sinistra, decise di collaborare col governo Berlusconi, a isolarlo e ad offrirlo ai terroristi come il bersaglio ideale da abbattere.