In mezzo scorre Fiume. Con lo sguardo dall’Italia, questo è l’ultimo baluardo folcloristico di un’occupazione espansionistica visionaria, di un colonialismo utopico di vicinato. Con lo sguardo interno croato l’atmosfera si fa pesante dopo il dominio italiano. Adesso qua la minoranza italiana è sparuta. Nella baia riluce nel suo arrugginimento il Galeb, lo yacht di Tito che nessuno voleva e che la città croata ha comprato, per ormeggiarlo in attesa di capirne la sorte, per poche kune, la moneta locale. Si racconta che a bordo si poteva trovare una belva rara come Sofia Loren.
Nel 2020, con Fiume capitale della cultura europea (Matera gli passerà il testimone), la nave presidenziale, prima bananiera poi militare, sarà teatro di una pièce su Cristoforo Colombo. Qui parlare di Gabriele D’Annunzio, che prese la città e per due anni ne fece laboratorio contraddittorio di idee liberali e dittatoriali, suscita moti controversi, accesi dibattiti, prese di posizione dure. Per questo è importante il rischioso tentativo di dare una nuova prospettiva all’intellettuale pescarese, senza scegliere partigianamente una linea né tentare tesi ardite, da parte di Gianpiero Borgia, libero pensatore barlettano prestato al teatro, risulta, a queste latitudini, ancora più coraggioso visto il tema scivoloso che l’Italia vuole nascondere, con pudore e vergogna, e la Croazia negare.
Riesumare la storia senza alcuna intenzione revisionistica ma con l’intenzione di scandagliare, con l’escamotage delle lucine del Varietà, quest’ingombrante e scomoda immensa figura letteraria e politica. Al netto dei velluti del Vittoriale, delle baroccate della Capponcina, del connubio passionale con la Duse, D’Annunzio rimane mistero imperscrutabile, caleidoscopio irraggiungibile che sfugge e sguscia alle definizioni. In Italia si sottolinea maggiormente il suo lato pruriginoso vorace d’aneddotica sessuale ma il personaggio è una continua scoperta che apre voragini di costume che non saziano, punti interrogativi che non si sciolgono ma si alimentano.
Nel ’18 saranno ottant’anni dalla morte, nel ’19 cento dall’Impresa di Fiume. Personaggio difficilmente catalogabile, ardito renderlo sul palco, proprio per questo il progetto è ancor più degno di applausi. Attraverso Cabaret D’Annunzio (testo del giovane prolifico Fabrizio Sinisi, penna seria di studioso), espediente per rendere più snello e leggero il mastodontico protagonista, per quadri viene segmentata la vita del Vate.
Un grande pianoforte è la scena, dove dentro una piccola buca sta davvero il pianista (impomatato, di poco nerbo), ma potrebbe anche essere una lingua voluttuosa da Kiss o maliarda da Mick Jagger, a leccare, godere. Maniacale, godereccio, manicheo, egocentrico, goliardico, lussurioso erotomane (ci ricorda le “cene eleganti”), eccentrico, retorico, esplosivo, salottiero, estremo, sfrenato guru, irriverente; Fabrizio Coniglio fa da perno e l’universo attoriale gli ruota attorno, dà voce e corpo al “tutto, tanto e troppo” che il poeta rappresentava, con garbo e vitalità. D’Annunzio è avanguardia spericolata, è futurismo punk, la sua scrittura è priapismo cerebrale, è guerriero da cavalcata delle Valchirie wagneriane.
Ma nell’incontro finale con Mussolini (a proposito sembra impossibile trattare l’inizio Novecento senza l’immancabile (ab)uso di canzonette e Petrolini), si capisce come non sia stato D’Annunzio fascista quanto il Duce sia salito sulle spalle del Poeta per vedere molto oltre. Mussolini (Valerio Tambone, doti solide) ha attinto a piene mani, grazie allo scrittore del Piacere, all’idea che era possibile portare a compimento il concetto di uomo forte, far sbocciare, non solo sulla carta, il superuomo. Ne esce però, nel comunque fervido e ambizioso lavoro di Borgia, un uomo debole e mediocre, un ometto dionisiaco menefreghista, capo “a sua insaputa” più dedito a coriandoli e feste che a quel comando che tanto inneggiava con l’inchiostro.
Buone sensazioni ci consegnano l’alter ego dannunziano, il presentatore circense Mirko Soldano, attore accorto e presente, l’energica Rosanna Bubola, solerte direttrice del Dramma Italiano, un po’ Arancia Meccanica un po’ Kill Bill, l’intensa Elena Cotugno-Duse che poteva osare maggiormente. D’Annunzio continua a toccare le nostre voglie, ad accarezzare con tripudio e aggressività le nostre recondite bramosie di insoddisfazioni esistenziali. Nell’impossibilità di farne un ritratto, Borgia ha scolpito, con efficacia e provocazione, una difficile trama orgiastica e bulimica senza limitarsi alla scorza, ma addentandone la polpa succosa.