Cinema

In viaggio con Jacqueline, un anti-spettacolare Forrest Gump in un film di una purezza (e bellezza) imbarazzanti

Capita raramente di vivere un film, percepirlo dentro all’anima, sentirlo acceso come un fuocherello che riscalda il cuore. Ma da quando abbiamo visto In viaggio con Jacqueline (uscita 23 marzo 2017) quella fiammella è tornata ad ardere. Il regista Mohamed Amidi dice di essersi ispirato a Una storia vera di David Lynch, come a La vacca e il prigioniero, film del 1959 diretto da Henri Verneuil con Fernandel

di Davide Turrini

“Poire per Jacqueline”. Capita raramente di vivere un film, percepirlo dentro all’anima, sentirlo acceso come un fuocherello che riscalda il cuore. Ma da quando abbiamo visto In viaggio con Jacqueline (uscita 23 marzo 2017) quella fiammella è tornata ad ardere. Un film di una purezza e una semplicità quasi imbarazzanti. Perché la storia è quella di un sogno. Un contadino algerino che con la sua mucca vuole raggiungere a piedi il Salone dell’agricoltura di Parigi, dove i due sono stati miracolosamente invitati. Duemila chilometri, dal villaggio rurale del Nord Africa dove c’è un unico collegamento web, attraversando il Mediterraneo, fino a Marsiglia poi a Parigi.

Pioggia, sole, imprevisti, e coperte calde per Jacqueline, il viaggio del pellegrino, del migrante Fatah (lo splendido Fatsah Bouyahmed) assume i tratti magici e poetici di un on the road d’altri tempi. Il regista Mohamed Amidi dice di essersi ispirato a Una storia vera di David Lynch, come a La vacca e il prigioniero, film del 1959 diretto da Henri Verneuil con Fernandel. Così se Amidi di Verneuil ripete il quadro ravvicinato e il legame di affetto del duo protagonista, di Lynch recupera quella malinconica pervicacia del viaggiatore che si riempie gli occhi di stelle viste nel suo percorso, più che un qualsiasi narcisistico scopo finale del viaggio. E allora, sulla strada, Fatah ritrova un mondo fatto di qualche sospetto e di mille aiuti, di incontri nati storti e di amicizie fraterne. Lui, pelato, mingherlino e con gli occhialetti, più che un bovaro sembra un Mister Smith qualunque, un puro dal cuore d’oro che nel suo cammino con la vacca incontra persone che lo ospitano, lo ascoltano, lo fanno ubriacare, gli danno riparo, lo aiutano. Un conte, una contadina, un cognato immigrato, e lui va avanti, diventa perfino, e per caso, soggetto popolare sui social, nei talk e nei tg. Quella camminata lunghissima non ha una meta vera, non c’è un obiettivo narrativamente spendibile, perché il cammino del protagonista è semplicemente l’essenza del cinema: il sogno.

“Qui siete tutti depressi, ma esattamente dove fa male?”, chiede Fatah al conte Philippe. Perché In viaggio con Jacqueline è anche un’opera di una chiarezza e straordinaria dialettica tra diversità culturali, sociali e religiose. L’ironia di Amidi colpisce gentile l’omologazione del mondo musulmano del piccolo villaggio di Fatah (là tutti hanno i baffi, tutti si chiamano Mohamed, e c’è pure un orologio modello richiamo del muezzin per pregare), ma scruta attento e per nulla indulgente la società avanzata e moderna del suolo francese. Ed è qui che la favola buona di Fatah assume connotati ulteriormente politici, facendo fondere tappetini rivolti a La Mecca e differenze di classe, agricoltori contestatori e forze dell’ordine. Fatah ha l’aura di un anti-spettacolare Forrest Gump che però non è mai “stanchino”; che scrive lettere d’amore all’amata che crede perduta come uno strabordante Totò e un aulico Dante; che lava e si lava con la sua mucca, la coccola, la accarezza, la cura fino all’esilarante testa-coda cultural/religioso con Fatah che chiede spiegazione sul perché il cane del conte stia sul divano, e il conte di riflesso gli ricorda che lui dorme con una mucca. Splendida epitome egualitarista che fa da compendio ad una messa in scena naturalistica e priva di orpelli; ad una regia che modula il ritmo con maestria accelerando e rallentando le cesure di montaggio, addentrandosi e allontanandosi con equilibrio tra particolare e totale; ed ad un commento musicale (Ibrahim Maalouf) che all’inizio pare pittoresco e “kusturiciano” ma che poi si apre armonicamente e si amalgama al racconto trascinandolo con sé.

“Spesso, durante la stesura della sceneggiatura, mi è stato detto che ero troppo naïf o che mi stavo concentrando troppo sui buoni sentimenti”, ha spiegato il regista Amidi. “In ogni caso, ho voluto mantenere questo approccio fino alla fine. Come nelle Lettere persiane di Montesquieu, quando qualcuno dotato delle migliori intenzioni e di un atteggiamento positivo arriva in un ambiente non familiare, raccoglie quello che semina. Volevo che Fatah incontrasse persone di mentalità aperta con cui fosse possibile uno scambio di punti di vista. Con una sorta di grazia, semplicità, gentilezza e mancanza di pregiudizi, questo personaggio è capace di dire qualsiasi cosa. E la gente lo adora per questo”. Distribuisce per l’Italia Teodora che, lasciatecelo dire, mostra pochi titoli ma che quasi mai ne sbaglia uno.

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