Ha un’odore stantio di una vecchia cantina quel mondo che Massimo Carminati ricrea attorno a sé. Sembra di rivedere i volti dei “pischelli” della banda della Magliana (“Bravi ragazzi alcuni, presidente, e lei lo sa che io non sono una mammola”) e i titoli dei giornali con le foto dei morti rimasti sull’asfalto, in una Roma dei misteri, dove si incrociavano servizi segreti, pezzi di cosa nostra, batterie di rapinatori e fascisti dal grilletto facile. Ed è forse il rosso acceso del sangue l’unico assente dal racconto autocelebrativo del “cecato”, alias “samurai”, alias “il pirata”. O il “nero”. Un mondo un po’ fantastico, fatto di onore ed omertà (“io non parlo di chi non è nel processo”), dove le vittime non devono avere spazio. Il primo giorno del suo interrogatorio ha richiamato quel manipolo di “200 persone”, la “comunità degli anni ’70”, come il suo mondo.
Ed eccoli i reduci, oggi in aula, testa rasata e tatuaggi, faccia dura e tanti ricordi. Quando Carminati inizia a ripercorrere il passato criminale nell’edificio bunker di Rebibbia Maurizio Boccacci, classe ’57, ascolta in silenzio, assorto. E’ accanto al fratello di Carminati, insieme a qualche altro camerata. Niente bar nella pausa. Nessun contatto con avvocati o giornalisti. Uno come lui rappresenta quel mondo che ancora oggi si richiama al fascismo, che corse al funerale di Eric Priebke per rendere omaggio al boia delle Fosse ardeatine, che ogni gennaio si schiera in via Acca Larentia per commemorare gli studenti di destra morti, che si nasconde dietro le sigle di Militia, il gruppo antisemita e neonazista al centro di indagini recenti della Procura di Roma. E che oggi viene in aula, perché parla il samurai.
La guerra non è finita – Apparivano come rivolte più a loro che al processo le parole pronunciate da Massimo Carminati all’inizio della seconda udienza, rispondendo all’avvocato Ippolita Naso: “A quanto pare la guerra con il mondo non è finita, a me non mi fa paura nulla, a me mi fanno ridere”. Il suo legale gli aveva chiesto di commentare una intercettazione con l’imprenditore Cristiano Guarnera, dove ripercorreva la sua storia criminale. E per ribadire ancora una volta quella sua immagine – tutta estetica e criminale – di guerriero, di vero Samurai, ha proseguito ricordando la sparatoria che gli fece perdere l’occhio sinistro: “Ma chi se ne frega che questo dato continua ad essere riproposto… Sì, il 21 aprile 1981 sono stato ferito, in un appostamento della Digos, stavano dentro un camion, hanno trovato 145 colpi poi nell’automobile, mi hanno colpito in faccia. Ci hanno sparato e basta, ma erano altri tempi, io ho dato legittimità a questo fatto, per me è una ferita di guerra, in quel momento era giusto che ci sparassero, la procura sa che è così, non mi interessa neanche spiegarlo”. Ed ecco che nell’aula bunker di Rebibbia – dove sono passati pezzi di neofascismo e della banda della Magliana – ritornano quelle tinte grige, plumbee degli anni ’70.
Le parole di Carminati suonano quasi come un richiamo. Un segnale, un assist politico. Difficile interpretare il gesto, ma di certo quella “comunità” è ancora oggi attiva. Nelle informative gli investigatori del Ros avevano ricostruito nei dettagli – durante le indagini – gli incontri tra Massimo Carminati e Maurizio Boccacci: il 24 gennaio 2012 l’esponente di Militia era stato scarcerato e solo quattro giorni dopo le microspie registrano l’incontro tra i due. Boccacci, annotano i carabinieri, ”discuteva del panorama politico italiano del momento”. Una conoscenza ed un rapporto che, però, lo stesso Carminati cercava di occultare, secondo gli investigatori: “In tale circostanza – scrivono i carabinieri del Ros – assumeva particolare interesse la volontà espressa dal Carminati di evitare controlli di Polizia che avrebbero lasciato traccia dell’incontro con l’interlocutore”. Un dettaglio che racconta l’importanza che il “nero” dava al quel rapporto.
Le ultime parole di Carminati – Le ore dell’interrogatorio scorrono poi con una certa stanchezza, tra puntualizzazioni, ricostruzioni contrapposte a quelle dell’accusa e un attacco ai carabinieri del Ros. La storia riguarda quella che per la Procura era una intimidazione, una vera e propria minaccia, nei confronti di Luigi Seccaroni, un concessionario romano in stretti rapporti con Carminati. “Ci sono voluti due mesi ma alla fine con l’avvocato abbiamo ricostruito quello che è accaduto”, spiega nel corso dell’interrogatorio. “Io non ho incontrato quel giorno Seccaroni, i dati del gps messo sulla mia automobile lo dimostrano”. E’ l’occasione per partire a testa bassa contro gli investigatori.
Riemerge, per qualche minuto, il Samurai, il bandito che non perdona “le guardie”: “Io penso che in questo atto c’è una azione dolosa, non da parte della Procura. Io posso fare il bandito, posso fare qualsiasi reato, ma voi, come Ros, non lo potete fare, mi è stata fatta una porcheria, hanno omesso le prove, io non ho mai minacciato Seccaroni in questa cosa non c’è niente che va bene”. Nel controesame il pm Luca Tescaroli gli contesta una telefonata fatta con Riccardo Brugia, proprio quel giorno, dove lui usa parole pesantissime nei confronti del concessionario: “Nano putrefatto, capito? Io ti piscio addosso, capito? Mo’ vai a denunciarmi ai carabinieri, non me ne frega niente…”, erano le parole di Carminati su Seccaroni intercettate quel giorno. Ma questa era l’occasione che il “cecato” aspettava, colpire il Ros, il suo nemico giurato con accuse pesanti di indagini manipolate; ancora una volta può mostrare alla Roma che voleva dominare di che pasta è fatto.
Il controesame, che dura meno di un’ora, lo vede con un atteggiamento molto diverso rispetto a quello mostrato fino al momento. Quando il pm Tescaroli gli chiede delle armi, la prima risposta vorrebbe quasi essere ironica: “Negli anni ’70 facevo il rapinatore, può essere che con qualche arma ho avuto a che fare, dottore”. E quando la Procura gli contesta un’intercettazione dove parlava con Brugia di armi durante le indagini di Mafia capitale, la risposta è secca: “Stavamo parlando di qualche film. Abbiamo parlato di armi, a me piacciono le armi”. E aggiunge: “Non mi risulta che siano state trovate… sì, non sono state trovate, non sono state usate… parlavamo di film visti la sera prima”.
Sfugge anche alle domande sui suoi rapporti con altri pezzi del mondo criminale romano: “Diottallevi? Era passato solo per un saluto, ci siamo presi solo un caffè”. Rivendica solo l’amicizia con Michele Senese, il boss inserito nel famoso articolo de L’Espresso sui quattro Re di Roma: “Michele era uscito dal carcere, ero felicissimo, ci siamo salutati e abbiamo parlato del più del meno, io con lui non ho avuto processi o indagini insieme; io sono contento anche quando evade qualcuno, si figuri se non sono felice quando qualcuno esce dalla galera”.
Nessuna disputa, nessuna discussione per spartizioni che, dice, “non esistono”, “nessun motivo di contendere”. E di droga non ne vuole poi proprio sentire parlare, storie “inventate dalla stampa”, spiega, che lo fanno infuriare. “Io denuncerò tutti – aggiunge poi promettendo una guerra di carte bollate – quando sarà finito il processo; gli unici che rispetto sono Il Fatto Quotidiano e Report. Mi attaccano, ma attaccano tutti e non hanno padroni”.
Sono probabilmente le ultime parole in pubblico di Massimo Carminati, che rischia la pena più dura della sua lunghissima carriera criminale. Non aveva mai risposto in aula, salvo qualche breve intervento, molto spesso per controbattere ad inchieste giornalistiche. Prima dell’estate arriverà la sentenza, che chiuderà la prima parte di una lunghissima battaglia giudiziaria. Il “nero”, l’uomo a cavallo tra l’eversione di destra e il mondo del crimine della banda della Magliana, ripiomberà nel silenzio. Con l’accusa peggiore, che tra poco verrà valutata dai giudici: quel suo mondo altro non è se non Mafia capitale.