I licei ai figli dei ricchi, i professionali a quelli degli operai. Ecco il manifesto del fallimento della nostra scuola. Lasciamo parlare i dati raccolti da AlmaDiploma su 261 istituti per un totale di 43.171 studenti di Lazio, Lombardia, Emilia Romagna, Liguria, Puglia, Toscana, Trentino, Sicilia, Veneto e altre sette regioni.
Solo un liceale su sei proviene da una famiglia operaia. Nel 2016 al Classico si sono diplomati solo l’8,7% di ragazzi figli di impiegati o di genitori che stanno alla catena di montaggio a fronte di un 45% di figli di professionisti, dirigenti, docenti universitari e imprenditori. Allo Scientifico sono usciti il 13,1% di ragazzi che provengono dalle classi sociali più povere. Ma non basta. Se andiamo a vedere la questione ripetenti scopriamo che il 30% di chi viene bocciato al liceo due o più volte appartiene alle famiglie operaie contro il 17% della classe elevata.
Tenterò di non scomodare per la gioia dei miei detrattori Lettera ad una professoressa di don Lorenzo Milani ma bastano questi numeri per farsi qualche domanda: perché Angela, figlia di un disoccupato e di una mamma che si arrabatta con qualche lavoro domiciliare, che a casa non ha nemmeno la libreria ma che di fronte ad una tavolozza sa dipingere meglio di tutti gli altri, non andrà al liceo classico? Perché quel liceo è rimasto lo stesso di quando lo frequentavo io, figlio d’operai bocciato perché raccoglievo le firme contro la figlia dell’avvocato che arrivava un’ora più tardi perché andava dall’estetista? Perché è rimasto lo stesso liceo del professor Rossi, dirigente che impettito diceva “Solo da qui uscirà la classe dirigente”? Forse dobbiamo pensare che i figli dei ricchi, dei dirigenti, dei professori abbiano un dna diverso da quello di chi nasce da una commessa del supermercato o di un operaio della Piaggio? Forse per loro ci sono solo “certe” scuole e altre sono riservate ai borghesi?
Ai miei ragazzi faccio studiare l’articolo tre della Costituzione: “… E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” perché sappiano che anche se son figli di operai hanno gli stessi diritti di chi ha in casa babbo e mamma con due lauree appese alla parete a far bella mostra.
Eppure i numeri di AlmaDiploma ci raccontano un’altra storia. Ci dicono che alla fine il figlio del dottore fa il dottore così come il figlio dell’avvocato farà l’avvocato. Il 43% dei laureati in Medicina proviene da classi sociali elevate e in generale il 34% degli iscritti a corsi di laurea magistrale a ciclo unico. I figli di operai e impiegati rappresentano solo il 15% dei laureati magistrali a ciclo unico contro un 34% costituito da figli della classe sociale più elevata. Secondo l’Annuario Statistico italiano nel 1963 fra gli studenti universitari i figli di papà erano l’86,5%. I figli dei lavoratori dipendenti il 13,5%. Fra i laureati: figli di papà 91,9%, figli di lavoratori dipendenti 8,1%. Fatte le giuste proporzioni possiamo dire che è cambiato ben poco.
Una scuola che continua a dividere, a mettere i figli di papà da una parte e i figli degli operai dall’altra è una scuola che è fallita, che non ha saputo essere “aperta a tutti”, che non ha realizzato alcun miglioramento della società, che non ha puntato al progresso ma solo allo status quo. Appositamente non ho citato don Milani in questo periodo in cui tutti (persino Paola Mastrocola domenica scorsa sul Sole 24 ore) parlano di lui, anche a sproposito, ma dopo aver letto questi dati, riprendete in mano Lettera ad una professoressa.
Servirà a capire che la scuola ha davvero fallito il suo compito.