Innovazione tecnologica e globalizzazione stanno erodendo la quota di ricchezza che finisce nelle tasche dei lavoratori. Un’affermazione che, a torto o ragione, può suonare ovvia a tanti ma che assume un rilievo particolare se a pronunciarla è il Fondo monetario internazionale. Per di più mettendola nero su bianco su quello che è il documento economico per eccellenza, ossia il suo World Economic Outlook che rispecchia la posizione ufficiale del Fondo. Un documento che, se raramente contiene novità dirompenti, ha il pregio di tirare le somme dei tanti studi prodotti su varie tematiche e di fornire un supporto “scientifico” a tesi economiche che non sempre lo possiedono.
In uno dei capitoli che anticipano la pubblicazione dell’intero documento gli economisti del Fondo spiegano innanzitutto che a partire dagli anni 80 la quota dei salari sul totale dei redditi inizia a declinare. Oggi è in media circa il 4% più bassa di quanto non fosse negli anni 70. Tra il 1991 e il 2014 la quota delle buste paga si riduce in 29 delle principali 50 economie del pianeta. Una tendenza che colpisce in modo particolare l’industria manifatturiera, le comunicazioni e i trasporti. L’Italia è tra i paesi che hanno vissuto questa dinamica ma in maniera contenuta. Nei 25 anni analizzati la quota dei salari è scesa meno dell’1% a fronte del meno 2% circa degli USA o del -3% della Germania. Il peso dei redditi da lavoro è invece salito in paesi come Russia, in Brasile e, leggermente, in Spagna.
Il rapporto spiega poi che nelle economie avanzate gli sviluppi tecnologici e l’automazione dilagante siano responsabili per circa la metà del calo dell’incidenza dei salari. L’altro fattore che ha ridotto il peso complessivo delle buste paga è la globalizzazione. E ovviamente questo vale soprattutto nei settori definiti tradables, cioè in cui si producono che possono essere realizzati anche a grandi distanze.
Attenzione però perché questo non significa sempre e necessariamente che le buste paga si sono ridotte. Come si precisa nel rapporto questa dinamica deriva spesso dal fatto che la produttività del lavoro è cresciuta più rapidamente dei salari. In sintesi, la ricchezza prodotta aumenta ma i benefici vanno, in proporzione, sempre di meno ai lavoratori e sempre di più a chi investe i capitali.
Quando si analizzano trend economici di larga scala vincitori e vinti rimangono spesso sullo sfondo. Il rapporto Fmi spiega però che il declino della quota dei salari riconducibile a globalizzazione e innovazione riguarda in primo luogo i lavoratori della classe media. Colpisce soprattutto quelle mansioni facilmente sostituibili con l’automazione che produce una polarizzazione del lavoro tra mansioni di basso livello e lavori che richiedono professionalità elevate. Quindi innescando un aumento delle diseguaglianze che, avverte l’Fmi, può produrre tensioni sociali e politiche. Pertanto, conclude l’organizzazione di Washington, i singoli paesi devono trovare il modo per ridistribuire meglio i benefici che derivano dal progresso e dal venir meno di barriere commerciali.
Quello dell’Fmi è solo l’ultimo di una serie di ripensamenti sugli effetti di una corsa tecnologica che avviene ad una velocità che non ha precedenti nella storia. Un ritmo che strutture sociali e modelli culturali non riescono a reggere e che genera tensioni crescenti. Pochi giorni fa un editoriale del board del New York Times ha ad esempio messo sotto accusa il sistema di Uber e affini. Dietro l’illusione di imprenditorialità e occasioni per tutti, ha scritto il quotidiano statunitense, ci sono lavoratori manipolati, che guadagnano meno della media e che non hanno nessuna protezione in quanto di fatto lavoratori autonomi. Pochi giorni prima un’inchiesta dello stesso giornale aveva messo in luce come Uber utilizzi software che sfruttano trucchi psicologici per tenere gli autisti sulla strada più tempo possibile e incrementare le commissioni incassate dalla società (circa il 25% di ogni corsa).