Ci sono storie di violenza da cui le donne escono, dopo le quali ottengono giustizia e ricominciano a vivere. Siccome non finiscono sui giornali dovremmo raccontarle più spesso perché sono una ricchezza sia per le donne sia per coloro che le hanno ascoltate e sostenute: operatrici dei centri antiviolenza, magistrati, forze dell’ordine. Ci ha pensato Cristina Obber nel post “Sì, dalla violenza ci si può salvare” che vi invito a leggere.
Tuttavia, ci sono storie dove qualcosa si inceppa nel percorso di uscita dalla violenza e dobbiamo domandarci perché. Il 19 aprile, cinque giorni dopo la tragedia, si sono svolti i funerali di Letizia Primiterra uccisa a Ortona, nel Chietino a coltellate, 20 inferte su tutto il corpo, dal marito dal quale si voleva separare. Non è stata la sola vittima. Francesco Marfisi, questo il nome dell’assassino, ha prima ferito alla testa anche la figlia di Letizia, incinta al quinto mese di gravidanza, e poi ha ammazzato con 50 coltellate anche Laura Pezzella, davanti ai figli di 5 e 6 anni. Aveva un elenco di donne da uccidere Marfisi, tutte provavano affetto per Letizia. E’ stato fermato dai carabinieri mentre stava cercando di portare a termine una mattanza forse covata a lungo.
Il 3 aprile scorso, Letizia, pochi giorni prima del suo compleanno (aveva festeggiato 47 anni il 12 aprile) aveva pubblicato su Facebook una foto con una frase: “Come un bambino aspetto quel regalo atteso che la vita mi deve da tempo ormai.. quel qualcosa chiamato serenità“. La relazione matrimoniale con un uomo violento (il quotidiano Il Centro riporta che Marfisi aveva precedenti per violenza sessuale, reati contro il patrimonio e rapina già dal 1985) non l’aveva certo resa serena, ma aveva festeggiato il compleanno con una speranza. Aveva deciso di separarsi, dopo aver svelato la violenza bussando alle porte dei carabinieri e a quelle dello Sportello Non sei Sola, aperto nel 2012 per la volontà degli operatori del Consultorio familiare Associazione genitori di ispirazione cristiana, sostenuto dal Comune di Ortona.
Alla fine si era rifugiata a casa di quell’amica che ha rischiato di essere uccisa insieme a lei. Perché Letizia aveva cercato di proteggersi da sola? E’ stata una sua libera e infelice scelta o qualcosa nel sistema di protezione non ha funzionato? I segnali di rischio e della potenziale pericolosità di Francesco Marfisi c’erano: la non accettazione della separazione, i precedenti per violenza, i maltrattamenti, le minacce e i coltelli da macellaio che aveva in suo possesso. C’era, soprattutto, la paura di Letizia. Quella paura delle donne troppo spesso sottovalutata per pregiudizi, per mancanza di competenze o incapacità di ascolto.
Sono molte le domande che dobbiamo porre a noi stesse Era stata offerta a Letizia la protezione in una casa rifugio? Perché a quell’uomo conosciuto in paese come “arterio” (questo il suo soprannome, ndr) non sono stati sequestrati i coltelli? Letizia si era rivolta ai carabinieri e ne era uscita, solo, con una denuncia per minacce. Perché le istituzioni non hanno dato alcun segnale all’uomo che si preparava a diventare un killer facendogli capire che, intorno a lui, si stava innalzando una rete protettiva, per lui e per l’incolumità di Letizia.
A inizio marzo, l’Italia veniva condannata dalla Corte di Strasburgo per aver discriminato una donna perché “non agendo prontamente in seguito a una denuncia di violenza domestica fatta, le autorità italiane hanno privato la segnalazione di qualsiasi effetto, creando una situazione di impunità che ha contribuito al ripetersi di atti di violenza, che alla fine hanno condotto al tentato omicidio della ricorrente e alla morte di suo figlio”. Le donne che denunciano violenze devono ottenere protezione da parte dello Stato, ma i fatti di cronaca ci dicono che non si fa ancora abbastanza.
DiRe – Donne in Rete contro la violenza ha dichiarato: “Chi interviene sui maltrattamenti e sulla violenza maschile deve ricevere una formazione specifica, attenta, specializzata, consapevole. Questo è urgente e vitale anche per le forze dell’ordine: sono troppe le denunce trascurate.
Ma in questa storia di violenza che non è stata fermata pesa altro ancora.
Pesano come un macigno le dichiarazioni di Luca De Ninis, Gip del Tribunale di Chieti che chiede alla Procura di valutare la plausibilità della provocazione e del movente della gelosia (proprio così!) per concedere le attenuanti all’assassino. Il delitto d’onore è un fantasma che può aggirarsi ancora tra le mura dei tribunali italiani dove il disvalore di quel crimine di odio che si chiama “femminicidio” trova attenuanti con la motivazione della gelosia e della provocazione e l’uccisione di donne che si sottraggono a un legame eterno (finché lo vuole l’uomo) incontra, a volte, una sorta di giustificazione o rassegnazione collettiva.
A Ortona, martedì 18 aprile, una fiaccolata per Letizia e Laura ha attraversato le strade in silenzio fino alla piazza della Cattedrale, ma a fatica, in quel piccolo paese (mi è stato riferito) si parla di femminicidio. Si rimuove la violenza maschile come crimine, la si trasfigura o le si trovano le attenuanti. Ma la giustizia non può essere separata dalla verità e le donne vittime di femminicidio dovrebbero ricevere giustizia e verità, almeno da morte.
Pesa che i massacri di spietati killer siano (an)estetizzati dalle parole dei media che raccontano, ancora, di delitti passionali e raptus, evidenziano la sofferenza di chi ha ucciso e colpevolizzano le vittime. Troppi quotidiani raccontano la cronaca di femminicidi facendo con-fusione tra la narrazione del giornalista e le dichiarazioni degli indagati. Accade quando i giornalisti guardano la violenza contro le donne dalla stessa prospettiva dei loro aggressori. Accade persino che si legga “prime verità” nel sommario suggestivo che introduce la versione dei fatti dell’assassino come ha fatto il quotidiano online abruzzese Primadanoi.it che scrive di raptus a intermittenza e rovescia ruoli e responsabilità: “In verità due raptus esplosi in seguito a due episodi in cui sarebbe stato sfidato e dileggiato e l’uomo provato da mesi di tensioni, delusioni, amarezza e violenza ha reagito come non aveva mai fatto prima”.
Dall’inizio dell’anno sono state uccise 20 donne con la cadenza che i Centri antiviolenza denunciano da anni: una ogni due, massimo tre giorni. Nel giorno in cui morivano Letizia e Laura veniva uccisa anche Nidia Roana Loza Rodriguez a Camisano Vicentino per mano del marito italiano, lasciando una figlia di tre anni. Sette donne sono state uccise nel mese di marzo e sei dall’inizio del mese di aprile: quante altre saranno le cronache di morti annunciate? In un Paese, condannato dalla Corte di Strasburgo per non aver protetto adeguatamente una donna, i tribunali e i media lasciano andare, troppe volte, messaggi ambigui nei confronti di un crimine, il femminicidio, che dovrebbe sempre essere condannato con fermezza e durezza e soprattutto fermato.
@nadiesdaa