Fatte le debite proporzioni, e con una differenza qualitativa enorme, Thirteen Reasons Why, una delle serie più discusse dell’anno (disponibile su Netflix), è una sorta di versione “teen” di Le regole del delitto perfetto (quello sì, un capolavoro).
C’è lo stesso tentativo di tenere lo spettatore incollato allo schermo tra flashback e colpi di scena, con scenari che cambiano continuamente e punti di vista diversi che aiutano a comprendere tutte le sfumature dei personaggi, senza veri e propri eroi e “villain” ma con tanti ragazzotti di un liceo americano che a volte sembrano mostri insensibili, altre volte cuccioli indifesi nella tempesta adolescenziale.
Thirteen Reasons Why è una serie discussa soprattutto perché affronta il tema del suicidio (connesso a quello del bullismo). Una combinazione esplosiva, soprattutto in America, soprattutto nelle high school a stelle e strisce, soprattutto in un sistema scolastico che tratta gli studenti come pitbull da incattivire e scagliare l’uno contro l’altro. Perché conta la popolarità, conta l’eccellenza negli sport, conta la capacità di leadership. Conta tutto l’armamentario classico americano, con la cheerleader e il quarterback che occupano un posto molto più alto, nella scala sociale, dell’animo creativo e sensibile o del secchione.
È una serie con molti difetti, dicevamo, soprattutto contenutistici e narrativi. Alcuni motivi che spingono Hannah Baker a suicidarsi (non è spoiler, tranquilli, visto che è la prima informazione che viene data allo spettatore) sembrano irrilevanti e in effetti lo sono. Roba di poco conto, agli occhi di chi non si trova in quella situazione. E dunque quella di Hannah (che prima di suicidarsi registra 13 lati di vecchie musicassette per spiegare ai “colpevoli” come sono andate le cose) ci può sembrare una reazione esagerata, da “drama queen”.
Se guardiamo la big picture, però, tutto assume un senso preciso e soprattutto va considerato il fatto che ogni piccola cosa per noi insignificante riguarda una ragazza che ha deciso di togliersi la vita, dunque fragile, disperata, che ha perso lucidità e vede tutto nero (anche se con un fondo di razionalità esasperata che serve a portare a compimento il piano ingegnoso).
Pur con tutti i difetti evidenti di una serie troppo lunga (almeno 3 o 4 episodi sono del tutto inutili ai fini della narrazione), quello che non deve essere sottovalutato è il ritratto crudo di una generazione (quella dei teenager di oggi) che è devastata, totalmente impreparata, priva di anticorpi e strumenti adatti per reagire alle normalissime bastonate della vita.
E non è un caso che le critiche più feroci a Thirteen siano arrivate da commentatori over 30, che forse non riescono neppure a concepire quel tipo di disagio, quel genere malato di relazioni tra adolescenti. Semplicemente, gli over 30 di oggi appartengono a un mondo che è distante anni luce da quello attuale, perché è cambiato praticamente tutto nel modo in cui ci si approccia all’altro da sé.
“Colpa dei social network!”, esclameranno i più superficiali. E invece no, perché di social network, nella serie Netflix, non si parla affatto. Certo è che i social sono diventati uno strumento in più in mano a chi, tra i ragazzi (che sanno essere crudeli e stronzi fino all’esasperazione), non trova di meglio da fare che rendere un inferno la vita dei suoi coetanei. Fino a 10-15 anni fa, gli adolescenti avevano tempo e modo per staccare dall’ambiente scolastico potenzialmente dannoso, visto che una volta tornati a casa si viveva in un ambiente protetto o comunque scelto, non imposto dagli eventi. Adesso, invece, anche oltre l’orario scolastico può continuare l’eventuale bullismo. Ma è solo un elemento in più della vicenda, non certo la causa scatenante.
Thirteen Reasons Why è stata criticata ferocemente anche per la scena del suicidio, mostrata con una certa crudezza senza troppe remore. Ebbene, in questo caso la scelta degli sceneggiatori sembra giusta, perché una serie che ha l’ambizione (a sprazzi tradita) di lanciare anche un messaggio, di aiutare gli adolescenti in difficoltà, non poteva fare a meno di mostrare l’atto suicida in tutta la sua cruda realtà, senza indugiare su momenti poetici o presunti tali.
Ben venga, dunque, la lama che affonda nelle vene, ben venga il respiro affannato che si dirada sempre più, ben venga l’abbraccio disperato della madre. Se Thirteen può davvero servire a qualcosa (visto che capolavoro non è, ma nemmeno robaccia), è proprio a spiegare ai ragazzi che il suicidio non è mai la risposta giusta in casi di bullismo o di disagio sociale e che bisogna saper chiedere aiuto.
Anche se piena di difetti, anche se a volte sfocia in un buonismo peloso e insostenibile, Thirteen Reasons Why andrebbe guardata, e non solo se avete tra 13 e 19 anni. Può aiutare anche i più grandi, infatti, a capire le nuove generazioni, a colmare quel gap generazionale che ha costruito un muro tra i teenager e tutti gli altri, incapaci di immedesimarsi nella quotidianità dei più giovani e troppo spesso superficiali nel liquidare come esagerazioni da drama queen i piccoli segnali di disagio che non riusciamo a cogliere e che possono sfociare anche in tragedie irreparabili.