Non è mai stato un ladro. Lo hanno accusato di omicidi, stragi, esecuzioni, persino di rapina negli anni nerissimi dei Nar e Avanguardia Nazionale: ma il furto con scasso non era mai stato tra i suoi impieghi preferiti. Almeno fino a quella notte del 1999, quando probabilmente la storia di Massimo Carminati cambia per sempre.
Il 16 luglio dell’ultimo anno del Novecento è un venerdì senza luna: quando la faccia godereccia della Capitale sta cominciando a fare baldoria, otto persone si spingono fin dentro al caveau della Banca di Roma all’interno del palazzo di giustizia di piazzale Clodio. Sono una banda di “cassettari“, come chiamano a Roma i ladri specializzati nell’aprire casseforti e meccanismi blindati. I giornali parleranno di “furto del secolo“, i giudici di un “bottino eccezionale” da almeno 18 miliardi di vecchie lire e di un “crimine spettacolare” con una “carica intimidatoria”, per la “valenza simbolica” dei luoghi: in quello che è probabilmente il posto più sorvegliato d’Italia i ladri restano ore, senza sparare un colpo, senza forzare una serratura, senza far scattare alcun allarme.
A farli entrare saranno quattro carabinieri corrotti e le indicazioni fornite da un dipendente della banca rovinato dai debiti. A coordinarli c’è Carminati, il Nero della Banda della Magliana, il Cecato che qualche anno dopo sarà accusato di essere il capo dei capi di Mafia capitale. Per la verità in quel momento sulla sua testa pendono già accuse gravissime: una richiesta di condanna all’ergastolo per l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli e il processo per il depistaggio delle indagini sulla strage di Bologna. Quella notte Carminati rischia grosso ma forse è proprio per questo – per quei procedimenti pesantissimi che incombono sulla sua vita – che il Cecato decide di farsi ladro.
A raccontarlo è il giornalista dell’Espresso, Lirio Abbate, nel libro La Lista – Il ricatto alla Repubblica di Massimo Carminati (Rizzoli), dove mette in ordine tutti gli aspetti rimasti ancora inediti di quello che è forse il prequel di Mafia capitale. In un Paese di dossier, ricatti e pizzini il titolo del saggio di Abbate è evocativo: in quella notte senza luna, infatti, è proprio una lista quella che ha in mano Carminati. Un foglio di carta dove ha appuntato nomi e numeri: sono i titolari e le allocazioni di alcune cassette di sicurezza custodite nel caveau.
Carminati: “Ieri sono andato a cercare questo Abbate”
Nella pancia del palazzaccio romano ci sono più di novecento forzieri: i cassettari guidati dal Nero ne apriranno solo 147. “Quelle sono roba mia, voi prendere il resto”, dirà il Cecato ai suoi complici. Diventa “roba sua” quindi il contenuto delle cassette di sicurezza intestate a giudici, avvocati, cancellieri del tribunale, alti dirigenti dell’amministrazione giudiziaria. I forzieri svaligiati da Carminati appartengono ad alcuni personaggi che sono tutti legati ai principali misteri d’Italia, dalla P2 all’omicidio Pecorelli, dalla Banda della Magliana alla strage di Bologna: è un caso? E poi: cosa contengono in realtà quelle cassette di sicurezza? Solo denaro e preziosi o – molto più probabilmente – anche documenti, fotografie, possibili armi di ricatto?
Il giornalista dell’Espresso prova a ricostruirlo rivelando che tra i titolari della cassette di sicurezza scassinate da Carminati ci sono i fratelli Wilfrido e Claudio Vitalone: il primo è un avvocato, il secondo invece da magistrato ha sostenuto la pubblica accusa nel processo sul Golpe Borghese, poi ha fatto il senatore e il ministro con Giulio Andreotti e con il divo è stato anche processato e assolto per l’assassinio Pecorelli. Nell’elenco dei derubati da Carminati c’è anche Orazio Savia, pm in alcune contestatissime indagini della procura di Roma – per anni il “porto delle nebbie” di ogni inchiesta scomoda – processato e condannato per corruzione.
La lista del Cecato, però, è lunga: dentro c’è anche il nome di Domenico Sica, magistrato e prefetto, già alto commissario per la lotta alla mafia, per anni nome di primo piano della procura capitolina, titolare delle indagini sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, sull’omicidio di Aldo Moro, sull’attentato a Papa Giovanni Paolo II. Morto nel 2014, fino ad oggi nessuno aveva mai incluso Sica nell’elenco dei titolari delle cassette di sicurezza forzate da Carminati. Cosa c’era dentro i suoi due forzieri svaligiati alla Banca di Roma? “Una parte della destinazione della cassetta risale a un’epoca in cui ero Alto commissario. Quindi non lo so, sarei anche tenuto alla riservatezza su quello che poteva contenere la cassetta, ecco…”, concederà Sica ai giudici della procura di Perugia che indagano sul furto al caveau. Quando questi ultimi torneranno a chiedergli se per caso la notte della razzia di Carminati ci fossero ancora documenti riservati nelle sue due cassette di sicurezza, l’ex magistrato negherà con forza.
Quel furto, però, era sicuramente “finalizzato alla sottrazione di documenti scottanti, utilizzabili per ricattare la vittima o terzi”, appunteranno i giudici perugini, che non riusciranno mai a dimostrare se Carminati sia riuscito o meno a mettere a segno il suo obiettivo. Anche perché “nessuno ha denunciato la sottrazione di documenti” e quelli che “avessero detenuto siffatto materiale, ben difficilmente sarebbero poi disposti a denunciarne con entusiasmo la scomparsa”.
Carminati: “Sempre quest’Abbate: ma che cazzo me ne importa a me”
L’unica cosa certa è che dopo il furto al caveau Carminati viene assolto per l’omicidio Pecorelli (perfino in appello, quando ad essere condannato è Andreotti), e si salva anche dall’inchiesta sulla strage di Bologna: dopo l’assoluzione in appello, la procura generale non ricorre in Cassazione. Nel frattempo evaporano pure le condanne per mafia legate alla Banda della Magliana, e l’indulto del 2006 falcerà la pena a quattro anni che gli sarà inflitta per la rapina del 1999. Poi di quel blitz al cuore della Repubblica non si parlerà più, nonostante Carminati torni a girare per Roma, a intimidire, ricattare, e – per gli inquirenti – a fondare la sua Mafia, la piovra capitale. “Io sono convinto che se qualcuno avesse dato risalto a quell’inchiesta sul furto al caveau, se si fossero rivelati prima i nomi dei derubati, dei personaggi che sono stati potenzialmente sotto ricatto, sarebbe cambiata non solo la storia di Carminati, ma anche quella della città di Roma, la storia criminale, politica e affaristica di questo Paese”, ragiona oggi con ilfattoquotidiano.it Abbate, più volte minacciato dal Cecato.
Ma il giornalista siciliano non è l’unico che è tornato a parlare della rapina del secolo. Lo fa anche il suo autore principale ed è per la prima volta in 18 anni. “Sulla mia disponibilità economica, tutti ci girano intorno, ma è ovvio quale fosse dal 2002: se c’erano tutti questi dubbi che io avessi partecipato al furto al caveau potevano dirlo prima così mi assolvevano invece di condannarmi”, dirà Carminati intervenendo al processo a Mafia capitale, dove è l’imputato principe: la prima rivendicazione del maxi furto del 1999 arriva in collegamento dal carcere di Parma, dove è recluso in regime di 41 bis. Poi, però, il Nero ammetterà anche altro: “È vero, c’erano molti documenti, e così fra un documento e l’altro ho preso pure qualche soldo”. Un riferimento completamente inedito, quello alle carte, che per Abbate è un messaggio in puro stile mafioso. “Quando abbiamo scritto del caveau – dice il caporedattore dell’Espresso – Carminati è impazzito e per la prima volta ha parlato pubblicamente di quei fatti. Chi è siciliano non fatica a capire che quelle dichiarazioni spontanee avessero un senso ben preciso: io sono qui dentro, recluso, ma ho ancora quei documenti che vi rovinano. Voleva lanciare un messaggio“. L’ultimo mistero figlio di quella notte senza luna è proprio questo: con chi parla oggi Massimo Carminati?
Twitter: @pipitone87