Non ci sono più docenti. E allora bisogna tagliare gli studenti. Il caso limite della Statale di Milano, dove il rettore ha appena deciso di mettere il numero chiuso per la facoltà di lettere, è solo la punta dell’iceberg della crisi dell’università italiana: dopo anni di tagli ai finanziamenti e al personale è bastato cambiare il rapporto tra iscritti e professori per mandare in tilt gli atenei. “Così un provvedimento in linea teorica positiva si è trasformato in un grande problema”, è il parere del Consiglio Universitario Nazionale (Cun), che già in passato aveva lanciato l’allarme. Non è bastato nemmeno attingere a piene mani dal bacino dei precari per risolvere la situazione: ora nuovi corsi, specie di area umanistica o sociale, rischiano di scomparire. Oppure di essere limitati ai pochi ragazzi in grado di superare i test d’accesso, a causa della mancanza di risorse. “In un caso o nell’altro sarà una sconfitta, perché comporterà una riduzione dell’offerta formativa”.
IN 10 ANNI PERSI 10MILA DOCENTI – Per far partire i corsi, infatti, gli atenei devono rispettare un equilibrio tra il numero dei professori e quello degli iscritti: ci vogliono almeno 9 docenti di riferimento per il primo livello (la laurea triennale) e 6 per il secondo livello (quella specialistica). Solo che rispettare questa soglia è diventato sempre più difficile negli ultimi anni. Non che siano aumentati gli studenti, anzi: dal 2010 ad oggi l’università italiana ha perso circa 67mila iscritti, passando da 1.709.408 a 1.641.696 frequentanti. Non c’è nessuna invasione di studenti che giustificherebbe il ricorso al numero chiuso, insomma. Il problema è che sono diminuiti i docenti, in maniera anche drammatica: dieci anni fa superavano quota 60mila, adesso sono appena 50mila. I tagli storici dell’era Gelmini-Tremonti, con il blocco del turnover iniziato nel 2009 sotto l’ultimo governo Berlusconi, ha fatto andare in fumo 10mila docenze in un decennio. Soltanto adesso la situazione sta lentamente migliorando: grazie alle ultime due finanziarie le università (almeno quelle con i conti in regola) potranno tornare a sostituire i professori in uscita per la pensione, mentre l’ex ministro Giannini aveva lanciato un piano straordinario per il reclutamento di ricercatori. Una boccata d’ossigeno che comunque servirà solo a fermare la caduta, non a recuperare il terreno perduto.
LA NUOVA DIRETTIVA MINISTERIALE – Per questo il problema del rapporto docenti/studenti si ripropone ciclicamente. In maniera sempre più pressante. Solo due anni fa la Giannini era stata costretta ad emanare in tutta fretta una circolare che permetteva di includere in questo calcolo una percentuale molto più alta di precari. Ma neanche questa toppa (che è stata appena prorogata fino al 2019) è riuscita a tappare la falla. Anche perché nel frattempo, sempre da viale Trastevere, a fine 2016 è arrivata una nuova direttiva che ha modificato diversi parametri per l’accreditamento dei corsi, il cosiddetto “codice Ava 2”. Il numero dei docenti di riferimento è rimasto invariato (sempre 9 per la triennale e 6 per la specialistica), ma è cambiata la soglia di studenti oltre cui devono aumentare in maniera proporzionale anche i professori. Per fare un esempio: fino a ieri per un corso triennale di lettere i 9 docenti di base dovevano crescere oltre i 230 iscritti, adesso l’aumento scatta già dopo i 200. E questo ha mandato in crisi alcune facoltà. “Siamo di fronte ad un’azione positiva che inserita in un contesto malato diventa un problema”, spiega Marco Abate, coordinatore della commissione didattica del Consiglio Universitario Nazionale. “Chi può non essere d’accordo ad aumentare il rapporto docenti/studenti: significa migliorare la qualità della didattica. Ma se i docenti mancano, ecco che la stessa misura si trasforma in un guaio”.
I CORSI A RISCHIO – La questione è esplosa in maniera anche mediatica alla Statale, ma l’ateneo milanese non sarà certo l’unico a dover fare i conti con la questione. Il nuovo codice, nel complesso, non ha aumentato il numero totale di docenti di riferimento necessario per le università, ma ha determinato uno squilibrio in alcune aree: il problema potrebbe riproporsi in maniera diffusa per quei settori dove i parametri sono diventati più stringenti che in passato. L’area umanistica e sociale, con le facoltà di lingue, economia e psicologia, ed in seconda battuta quelle di lettere, storia e filosofia. Ma anche medicina, che ha già il numero chiuso, ma si tratta di un numero programmato a livello nazionale (e spesso dilatato dai ricorsi in tribunale) che potrebbe comunque non corrispondere alle risorse effettivamente a disposizione degli atenei. Per far fronte alle difficoltà i rettori lavorano di fantasia: c’è chi ricorre ai precari, chi accorpa corsi simili tra loro, chi trasferisce docenti nei dipartimenti dove c’è più bisogno (nei limiti del possibile: un professore di ingegneria non può comunque finire in antichistica). Ma si tratta comunque di espedienti per tamponare l’emergenza. “L’unica soluzione sistemica è tornare ad investire nell’università e restituire agli atenei la forza lavoro perduta in questi anni di tagli”, conclude Abate dal Cun. Altrimenti il Miur potrebbe fare un passo indietro, e ripristinare i vecchi e più flessibili parametri di accreditamento dei corsi: “Ma sarebbe come chiudere un occhio sui valori tossici per dichiarare potabile un’acqua che in realtà non lo è”. E allora avere anche i corsi di lettere o economia a numero chiuso potrebbe non essere più solo una scelta impopolare.
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