Ogni anno, in occasione dei gay pride (che negli Stati Uniti si svolgono nel mese di giugno), si ripropongono le solite, stolide polemiche. Cosa c’entra il “pride” cioè l’ “orgoglio” con i diritti civili? Perché questa carnevalata di culi nudi e poppe all’aria che squalificano “le pur almeno-in-parte-condivisibili rivendicazioni” delle persone Lgbt? Esiste forse un etero-pride? Chi cerca “normalità” non dovrebbe tentare di promuovere un’immagine “normale”? Le risposte a queste non-domande oltre che nella ragionevolezza risiedono nella storia americana degli ultimi 50 anni.
Negli anni 60 gli Stati Uniti vennero attraversati da profonde rivoluzioni sociali. I Black Riots di Philadelphia del 1964, furono seguiti da quelli di Watts del ’65, di Cleveland and Omaha del ’66 e infine di Detroit e Newark del ’67. La guerra del Vietnam, inasprendo conflitti sociali e disparità di censo, aveva innescato la crescita esponenziale del movimento pacifista.
Il mondo gay preparava la propria riscossa con lentezza e senza una piattaforma politica comune. Nel marzo del 1969, sulla costa ovest, a San Francisco, Gale Whittington, allora ventenne, era stato licenziato in tronco dalla States Steamship Company perché, su una foto pubblicata dal Berkeley Barb, appariva abbracciato al suo compagno Leo Laurence, direttore del Vector, l’organo stampa della “Society for Individual Rights” (Sir). Il Sir, all’epoca l’organizzazione omofila più rappresentativa della città, non seppe o non volle intervenire in difesa di Whittington. Fu allora che Laurence dette vita al “Committee for Homosexual Freedom” (Chf) e, con l’aiuto di Huey Newtown, uno dei leader delle “Black Panthers” modellò la sua nuova organizzazione sulla scorta dei gruppi di lotta neri. In quei mesi, oltre a moltissime azioni dimostrative, il Chf, nella persona di un altro militante, il giovane Carl Wittman, produsse il “Refugees from Amerika: A Gay Manifesto”, considerato il documento scritto con cui si suole simbolicamente marcare la nascita del movimento di liberazione gay. Dalle sue pagine Wittman invitava al coming out di massa, all’autodifesa, all’intransigenza e alla lotta politica.
Contemporaneamente, sulla costa Est, stava crescendo il malcontento per l’azione della “Mattachine Society of New York”. Fondata da Harry Hay nel 1950, la Mattachine Society aveva sempre perseguito un approccio politico detto “ameliorative” cioè morbido e da molti percepito come troppo “perbene”, non sufficientemente aggressivo, troppo conciliatorio, più simile a quello di una società di mutuo soccorso e non adatto a perseguire l’agenda di un fronte di liberazione. Tra i membri più critici, John O’ Brien, allora ventenne, era stato espulso prima dai Mattachines per essere troppo radicale e poi dalla “Young Socialist Alliance” per essere gay (o più precisamente per essersi rifiutato di smentire voci sulla propria presunta omosessualità). Aveva dunque dato vita ad un nuovo gruppo, ancora anonimo, che era solito riunirsi presso l’ “Alternate U”, una specie di centro sociale situato all’intersezione della quattordicesima strada con la 6th Avenue. Il linguaggio del gruppo di O’Brien era fatto di slogan come “Gays Must Fight Back” o “Resist” che invitavano all’azione e miravano al coinvolgimento di un bacino di militanti più ampio possibile. Sul fronte femminile un numero sempre maggiore di attiviste cominciava a nutrire insofferenza verso l’agenda, giudicata troppo debole, delle “Daughters of Bilitis” (Dob), la controparte lesbica dei Mattachines. Martha Shelley, sebbene membro attivo del Dob e rappresentante del movimento all’interno della Columbia University, era tra le voci più inquiete e le sue scelte successive ebbero grande influenza sulla storia dei diritti Lgbt e del femminismo americano. Questa la situazione all’alba dei moti di Stonewall.
Lo Stonewall Inn, situato al numero 53 di Christopher Street, era uno dei luoghi ritrovo più popolari del Greenwich Village. Sabato 28 giugno 1969 il locale aveva fatto, come al solito, il pienone. Intorno all’una di notte “Lili Law, Betty Badge e Peggy Pig” bussarono alla porta, intimando di aprire. Le drag queens avevano affibbiato questi nomignoli agli agenti della polizia che facevano regolarmente irruzione nel bar, così come in tutti gli altri locali del Village. I grimaldelli legali dei quali la polizia si avvaleva erano due: l’articolo 240.35 quarta sezione del Codice Penale e la regolarità delle licenze per vendere alcool. Il famigerato articolo aveva l’obiettivo di punire ogni “unnatural attire or facial alteration”; nello specifico chiunque avesse avuto indosso meno di tre oggetti ritenuti “gender appropriate” era automaticamente passibile di arresto. Quanto all’alcool, nel 1966 la Corte d’Appello di New York aveva stabilito che anche gli omosessuali avevano diritto al consumo di alcolici nei locali pubblici (sic!). Ma la licenza dello Stonewall Inn apparentemente non era regolare. Con questo pretesto sei agenti, quattro uomini e due donne della First Division Public Moral Squad entrarono nel locale. L’intenzione era di procedere ad uno dei soliti rastrellamenti.
Si racconta che, una volta effettuati i fermi, una lesbica in procinto di essere caricata sulla camionetta, si sia rivolta a tutti coloro che non erano stati arrestati esclamando: “Perché non fate qualcosa?”. Fu allora che la folla si armò di bottiglie e sampietrini e dette inizio alla rivolta. Secondo i testimoni di quella notte, la drag queen Marsha P. Johson riempì una borsa di mattoni e iniziò a fracassare una macchina della polizia. Nel frattempo John O’Brien era venuto in soccorso dalla sede di Alternate U. I vari arrestati erano stati liberati e i poliziotti costretti a barricarsi dentro lo Stonewall Inn per non essere linciati. Vennero divelti lampioni e parchimetri, arieti di fortuna, per dare l’assalto ai sei della Moral Squad. Mentre tutti si affrettavano verso le cabine telefoniche per chiamare gli amici al rinforzo, si racconta che un’altra drag queen, Silvia Riveira, abbia pronunciato le famose parole: “It’s a revolution!”. Molti accorsero per dare un contributo alla rivolta, inclusa Martha Shelley, ad oggi uno dei più preziosi testimoni oculari di quella notte, ma intorno alle due e venti il Tactical Patrol (la polizia antisommossa) giunse in massa. Un gruppo di drag queens e di avventori transgender accolsero il manipolo sulle note del “Ta-ra-ra Boom-de-ay”. La polizia attaccò ugualmente e fu violentissima. Per la popolazione del Village la misura era ormai colma. I tre giorni successivi trascorsero con relativa calma. Ma il mercoledì sera gli animi si riaccesero e ripresero gli scontri, di una violenza inaudita. Era l’inizio di una nuova era per tutte le persone Lgbt perché, parafrasando Dick Leitsch della Mattachine Society, era la prima volta che migliaia di persone omosessuali si ribellavano pubblicamente e scendevano in piazza per protestare contro le loro vessazioni quotidiane. Presto la giovane Martha Shelley avrebbe fondato il “Gay Liberation Front” e dalle strade del Village la lotta per la rivendicazione dei diritti civili si sarebbe estesa all’intero territorio degli Stati Uniti. La fine degli anni Sessanta inaugurò un attivismo che avrebbe determinato un progresso sociale fondamentale durante tutti gli anni Settanta e nelle decadi successive.
Così fu la storia e chi invoca una normalizzazione del pride non la conosce. Non esiste un etero-pride perché non sono mai esistiti articoli del codice penale che facilitassero l’arresto di persone eterosessuali in quanto eterosessuali. E chi si scandalizza di una donna transgender nuda, si dovrebbe ricordare del sacrificio che tante persone transgender e tante drag queens compirono durante i moti di Stonewall. Ogni anno viene celebrato il pride in memoria di quei giorni. Tutti gli edifici pubblici degli Stati Uniti vengono colorati di luci in segno di solidarietà. Tutti i sindaci delle maggiori città, democratici o repubblicani, prendono parte alla parata. Tutte le più importanti università onorano il ricordo di quelle notti con una cerimonia ufficiale patrocinata dal rettore e nessuno grida allo scandalo. Dal 2000 lo Stonewall Inn è entrato a far parte del registro dei monumenti nazionali.
Di qua dall’oceano, quarantasette anni dopo la notte dei riots, le persone Lgbt italiane non possono ancora sposarsi, né adottare figli e la transfobia continua ad essere la trincea del pregiudizio.