Cucinare i crostacei quando sono ancora vivi si può, in quanto “consuetudine sociale”, ma conservarli nel ghiaccio è “maltrattamento“, perché provoca loro dolore. Così la Corte di Cassazione ha confermato la sanzione di 5mila euro, stabilita dal tribunale di Firenze, ai danni di un ristoratore di Campi Bisenzio, che conservava granchi e aragoste vivi sotto ghiaccio e con le chele legate.
La Lega anti vivisezione nel 2012 aveva sporto denuncia contro il gestore del locale che nel 2014 era stato condannato, in primo grado, dal Tribunale di Firenze. Il ristoratore aveva fatto ricorso. A gennaio la Corte di Cassazione però aveva dichiarato “inammissibile” il ricorso presentato dal ristorante fiorentino. La notizia era stata data dalla Lav: “La condanna a carico del titolare del ristorante per maltrattamento di animali, emessa ad aprile 2014 dal Tribunale di Firenze e confermata ora dai giudici, si fonda su dati scientifici. I crostacei sono in grado di provare dolore e di averne memoria“.
Il ristorante si era difeso spiegando che gli animali arrivano dall’America in queste modalità di conservazione, adagiati sul ghiaccio in cassette di polistirolo con le chele legate. Dal momento che nella stessa giornata vengono cucinati, non farebbe altro che mantenerli nelle stesse condizioni in cui si trovano già. Spiegazioni che però non hanno convinto né il tribunale né la Cassazione. Dal momento che esistono modi meno crudeli del ghiaccio, come gli acquari, chi conserva i crostacei in modalità impropria arreca loro “sofferenze causate dalla detenzione”, commettendo il reato di maltrattamento di animali, come previsto dall’articolo 727 del codice penale.
La terza sezione penale (sentenza n.30177), che ha ritenuto “inammissibile” il ricorso del ristoratore, afferma che “nonostante solo negli ultimi anni diverse ricerche abbiano portato una parte della comunità scientifica a ritenere che i crostacei siano essere senzienti in grado di provare dolore“, la decisione del tribunale è giusta perché esistono altri modi per conservarli in attesa di cuocerli. Ad esempio, acquari a temperatura e ossigenati, utilizzati “non solo nei ristoranti, ma anche nei supermercati della grande distribuzione”. Esiste quindi una “sensibilità nella comunità” che induce ad adottare “accorgimenti più complessi ed economicamente più gravosi” che però consentono di “accogliere gli animali in modo più consono”. Non costituisce invece reato di maltrattamento il cucinarli vivi: “la particolare modalità di cottura può essere considerata lecita proprio in forza del riconoscimento dell’uso comune”.