Il problema principale è capire chi ci sta e chi non ne vuole sapere. Se la lista unica di sinistra fedele alla Costituzione, come la vogliono Anna Falcone e Tomaso Montanari, si farà, bisognerà capire chi ci starà dentro. E l’assemblea organizzata dall’Alleanza popolare per la democrazia e l’uguaglianza al teatro Brancaccio di Roma non ha contribuito a sciogliere questo dubbio. Anzi, se doveva essere una prova generale di unità della nebulosa a sinistra del Pd, è evidente che non è andata benissimo. “Non arriviamo a conclusioni affrettate: c’è tempo e modo per costruire una piattaforma ampia e capace di proporsi come forza di governo”, cerca di sdrammatizzare Nicola Fratoianni, il segretario di Sinistra italiana, intento a ripassare il suo discorso prima di salire sul palco. Ma è innegabile che l’immagine destinata a restare, di questa giornata, è la contestazione a Miguel Gotor, arrivato qui con l’ingrato compito di rappresentare Mdp e, di fatto, di convincere il resto della comitiva a non chiudere le porte a Giuliano Pisapia. Sempre che il leder di Campo progressista – “questo Amleto milanese”, come lo definisce un parlamentare di Si – si decida su cosa fare: se aprire al dialogo col Pd di Renzi oppure aderire al listone di sinistra.
Che trovare la sintesi non sarebbe stato facile, del resto, lo si era capito subito. Sin da quando, cioè, nelle dichiarazioni della mattinata ai cronisti fuori dal Brancaccio, s’era riscontrata una sostanziale vaghezza sui confini della nascitura coalizione. Mentre Francesco Laforgia, capogruppo di Mdp alla Camera, spiegava che “il nostro ruolo è quello dei tessitori”, Stefano Fassina, pochi metri più in là, sorrideva sornione: “Tutto dipende dalla trama che si vuole tessere: se in quel ricamo c’è anche il Pd, non funziona”. La metafora più efficace la fornisce un militante di Si, col Manifesto sotto il braccio, subito dopo aver scambiato due parole con Arturo Scotto: “A me sembra un po’ come una festa a cui ogni invitato dice che viene solo se può portare un amico, solo che quell’amico diventa l’ospito sgradito al resto della comitiva”.
Tutti, comunque, invitano a non soffermarsi sui nomi e sulle alchimie delle alleanze. E parlano di programma, di condivisione di contenuti. Il teatro è gremito, molte persone fanno a spintoni per entrare, in tanti saranno costretti a seguire gli interventi dal televisore installato nell’atrio del teatro, alcuni persino sul marciapiede attraverso la diretta streaming. Dentro, Tomaso Montanari esordisce citando l’articolo 3 della Costituzione. “Parte dall’articolo 3, e non da Articolo 1”, si sogghigna al lato del palco. Il riferimento è soprattutto a Massimo D’Alema, seduto in prima fila, di cui molti considerano lo storico dell’arte come una sorta di figlioccio politico. Ma se lo è, Montanari è senz’altro un figlioccio infedele. E lo dimostra a metà del suo discorso, quando sentenzia che “la formula del centrosinistra si è rotta” e passa in rassegna i tanti errori commessi dai governi dell’Ulivo e dell’Unione negli ultimi vent’anni. E parte proprio dalla “riforma del titolo V votata a maggioranza” e dalla guerra in Kosovo, “una guerra illegittima sia per la carta dell’Onu sia per la nostra Costituzione”. Parte, cioè, da due decisioni che portano proprio la firma dell’ex segretario dei Ds.
Quanto a Pisapia, Montanari lo affianca a Renzi come esempio di “leader senza popolo”, e quando legge il messaggio con cui l’ex sindaco di Milano ha declinato l’invito al Brancaccio (“Non ci sono le condizioni perché io venga”), dalla platea parte una bordata di fischi. Se Pisapia, che proprio da questo teatro a metà marzo lanciò il suo Campo progressista, è il grande assente, spetta a Miguel Gotor provare a convincere che con l’artefice di quella che fu la rivoluzione arancione del 2011 i contatti vanno mantenuti (“Non trasformiamo la battaglia del No in un discrimine identitario”, dice, riferendosi alla scelta di Pisapia di appoggiare la riforma costituzionale voluta da Renzi). Prima di Gotor parla Francesca Re David, della Fiom: ed è un intervento che contribuisce a surriscaldare il clima. Appena Gotor si avvicina al pulpito, un uomo lascia il suo posto in platea e si scaglia verso il palco: “Perché vi siete solo astenuti, sui voucher, anziché votare contro?”, domanda. Ma più che una domanda è un’accusa. Si pensa che la protesta sia terminata, e invece no. Perché dopo pochi minuti irrompe sul proscenio una donna, attivista dell’ex Opg di Napoli, e tenta di interrompere l’intervento. “Me l’aspettavo quest’accoglienza”, si sfogherà poi Gotor, che aggiungerà: “Pisapia bisogna includerlo, dobbiamo occupare tutto lo spazio che sta a sinistra del Pd. E il ruolo di Mdp in questi mesi sarà proprio questo: strappare Giuliano dalla tentazione di aprire a Renzi, col quale non abbiamo alcuna intenzione di riattivare i contatti”. Operazione non scontata. “Certo. Anche per questo mi aspettavo i fischi di oggi. Così come mi aspettavo l’inciucio immediatamente successivo”.
Il riferimento è ai tentativi di ricucire lo strappo da parte di Pippo Civati, che sale sul palco poco dopo Gotor e lo ringrazia per essere intervenuto. “Dobbiamo dialogare anche con chi in questi anni ha fatto qualche cazzata. I nostri nemici – dice il leader di Possibile – non cerchiamoli nelle nostre più immediate vicinanze”. Sembra un segnale: da quel momento in poi diventa tutto un invito a “federare”, a “stare larghi”, a “non chiudersi”. “Bisogna coniugare unità e credibilità”, sancisce Fratoianni. Ovvero? “Rifiutare atteggiamenti minoritari ma al contempo non riproporre listoni troppo variegati”. Facilissimo, a dirsi.