Conveniva andare con loro, dicevano, perché così riuscivano a lavorare per molti mesi. Con l’agenzia, invece, sostenevano che l’impiego nei campi sarebbe durato al massimo un mese. E le braccianti, tutte donne, quasi esclusivamente italiane, accettavano la proposta dei presunti caporali, spinte dallo stato di indigenza e necessità. Sopportavano la ‘cresta’ e orari di lavoro prolungati. Si accontentavano di 38 euro al giorno per 8 ore di lavoro, invece di 55 per 6 e mezza come era scritto nel contratto.
Dovevano perfino pagare in anticipo il trasporto verso i campi: 8 euro sull’unghia prima di partire, pena il rischio di non percepire la paga al rientro dopo aver sgobbato nei campi di ciliegie e di uva nella provincia di Bari. Chi si ribellava sarebbe stato anche picchiato. E le donne, per uno dei quattro arrestati su richiesta della procura di Brindisi, erano “femmine” che avevano la stessa testa di “mule e capre” e per loro “pizza e mazzate ci vogliono, altrimenti non imparano”. Tradotto: sesso e botte per far comprendere la propria legge medievale.
Padroni e schiavi, caporali e braccianti. È lo spaccato da terzo mondo ricostruito dai pm di Brindisi tra la stessa provincia salentina e quella di Bari, dove il lavoro nei campi continua a essere fonte di guadagni illeciti per i caporali. Ne hanno arrestati quattro, al termine di una lunga indagine dei carabinieri di Francavilla Fontana. Agli indagati viene contestato il concorso in intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro pluriaggravati.
A dimostrare il loro presunto coinvolgimento ci sono le dichiarazioni delle donne sfruttate, “pienamente attendibili” secondo il gip Maurizio Saso, e le riprese fatte lungo le strade statali percorse dai camioncini per accompagnare i contadini nei campi e pure quelle nelle aziende agricole dove le donne venivano impiegate. Partivano all’alba dalle province di Taranto e Brindisi, accalcate anche in dieci all’interno di pulmini da 7 posti. Pagate poco e costrette anche a ‘girare’ quotidianamente somme di denaro ai presunti caporali Michelangelo Veccari, sua moglie Valentina Filomeno, Grazia Ricci e Maria Rosa Putzu.
Erano loro, secondo i magistrati, a organizzare il traffico di manodopera per conto di un’azienda agricola di Turi, nel Barese. Ma almeno due braccianti hanno deciso di denunciarli alla fine del 2015. Hanno detto basta a condizioni di lavoro disumane, causate dal loro stato di bisogno e necessità. Un aspetto non secondario, perché è una delle architravi sulle quali si poggia la possibilità di punire i caporali. Che non solo avrebbero sfruttato una quindicina di donne, ma ne parlavano in questi termini. Dice Veccari, ascoltato dalle microspie piazzate dai carabinieri: “Alle femmine pizza e mazzate ci vogliono, altrimenti non imparano”. E ancora: “Femmine, mule e capre, tutte con la stessa testa”. E quando qualcuna si ribellava, i presunti caporali ricordavano le regole, come chiarisce un dialogo intercettato.
Una bracciante parla del trasporto nei campi e delle ‘regole’ di ingaggio: “Non so, ditemi voi. Devo scendere con l’agenzia o devo scendere con voi”. La risposta è chiara: “Con l’agenzia lavori un mese, con noi lavori sei mesi, otto mesi. Quindi dipende cosa vuoi fare. Se vuoi lavorare un mese, altrimenti ti conviene venire con noi. Secondo me ti conviene, perché con noi alla fine lavori”. La risposta della donna: “Ok, allora vado all’agenzia e tolgo il contratto”.
E loro lavoravano, secondo quanto accertato dalla procura, nonostante la retribuzione fosse incongrua rispetto alle ore di lavoro svolto. Né venivano rispettati riposi settimanali, festività e gli straordinari non venivano corrisposti. Inoltre, una delle donne indagate, avrebbe decurtato 8 euro dalla paga giornaliera di ogni bracciante per il ‘servizio’ di trasporto. A volte, sostengono gli investigatori, la ‘tassa’ doveva essere addirittura anticipata dalla manodopera, sotto la minaccia di non ricevere i soldi alla fine della giornata lavorativa.