I giochi dei bambini – i tricicli, le piccole auto con gli occhioni – sono in fila lungo le pareti di un sala che un tempo dev’essere stata d’attesa, il dottore la riceve tra poco. Amir vive in direzione, ha scritto il suo nome sul nastro adesivo appiccicato sulla vecchia targa del direttore che non c’è più. Il parcheggio delle bici è fuori dal vecchio androne, dove i cartelli affissi al muro indicano uffici che sembrano evacuati per un’emergenza: a destra la “ricezione documenti”, a sinistra la “bollatura dei registri”. Sulla porta d’ingresso, con uno spray nero, hanno scritto a caratteri giganti: chiudere sempre la porta. Ogni tanto la porta si apre e arriva una nuova famiglia, che si porta dietro vestiti, qualche mobile, dignità. A Livorno, quartiere della Cigna, periferia nord, un grattacielo senza vita è diventato il grattacielo dei senzacasa. Erano 70, poi cento. Ora sono 220, quasi 80 hanno meno di 18 anni. Prima hanno occupato solo il piano in cui stava l’Agenzia delle Entrate. Ora i panni stesi sventolano fino al sesto dei 19 piani. Le famiglie che vivono nella Torre dei senzacasa sono 56: livornesi, romeni, senegalesi, albanesi, marocchini. Gianfranco, Iaho, Amir. “Cigna occupata e antirazzista” mette in chiaro un graffito poco artistico ma ornato della falce e del martello.
Il male di Livorno, la capitale degli sfratti
Livorno sta ancora male. Nella Toscana felice è una delle aree depresse, con Massa Carrara e Piombino: territori che hanno vissuto quasi solo di industrie e poi di industrie sono morti. La crisi non sembra mai finita, lascia altre cicatrici. La disoccupazione toglie il sonno e le case. La città sale e scende dal podio dei record nazionali degli sfratti nella classifica stilata dal Sunia: un anno è prima, un anno è sesta, l’anno dopo seconda, poi ancora prima. Oggi la media è di 40 sfratti esecutivi al mese, raccontano dal sindacato Asia-Usb che si occupa dell’emergenza casa. In tre anni sono quasi raddoppiati: dai 150 del 2014 ai 270 del 2016. Nel 2006 le case si dovevano abbandonare per finita locazione, oggi per morosità incolpevole. Significa che la gente perde il lavoro e poi deve scegliere: mangiare o pagare l’affitto. Così una cosa brutta – un grattacielo cadente che copre il belvedere verso la campagna – nasconde una cosa bella: è diventata la casa di chi non ce l’ha. I ragazzi di Gianfranco, che vanno a scuola, la mamma di Roberto, che vendeva frutti di mare, la ragazzina di Camelia.
Le cose brutte e le cose belle di Livorno
Di cose brutte che coprono cose belle Livorno se ne intende. Da trent’anni un cavalcavia sfigura la deliziosa facciata delle Terme del Corallo – stucchi, riccioli e archetti – dove cent’anni fa venivano da tutta Italia per rimettersi a posto l’apparato digerente con l’acqua miracolosa di una fonte: la Montecatini del mare, la chiamavano. Oltre sessant’anni fa invece un palazzone perdibile e con due spalle così fece diventare piazza Grande non più così grande, spaccando in due lo spazio verde e arioso che si trovava tra la facciata del municipio e quella del Duomo. Il progetto venne fuori più invasivo del previsto, perfino, ma chi governava non se la sentì di negare il regalino al costruttore per non perdere i finanziamenti per la ricostruzione di una città in ginocchio, esausta, massacrata come poche altre (Genova, Bari, Ancona) dai bombardamenti alleati.
Il sacco della Cigna
Resta da capire cosa poteva guadagnarci la città, invece, dalla costruzione di un grattacielo di 19 piani a un passo da una zona semi-industriale fatta di capannoni e a due passi dall’aperta campagna – ora piena di mountain-bike, ippoterapia e camminatori – che fa strada fino alle Colline Livornesi. Progettata negli anni Ottanta, costruita negli anni Novanta, abbandonata sei anni dopo essere stata conclusa: la Torre dei senzacasa è a prima vista un piccolo furto di spazio comune. E’ il sacco della Cigna: doveva essere il nuovo centro direzionale e invece la storia racconta che quel tentativo di dare un tono moderno all’ingresso in città è stato solo un esercizio di gigantismo infilato dentro un quartiere popolare con pini e pratini. Alla fine ha lasciato un fantasma da periferia metropolitana in una città che è poco più che un paesone.
La Torre nata a fatica e morta subito. E che nessuno vuole
Il grattacielo è nato a fatica e morto subito: gli uffici inesplorati, gli appartamenti mai abitati. Solo il piano terra, per qualche anno, ha visto aprire e chiudere qualche negozietto, un bar, una banca, soprattutto l’Agenzia delle Entrate, non contribuendo così a far entrare nel cuore dei livornesi l’opera così grande, così moderna e così inutile. La vita della Torre è finita nel 2006 con quella della società proprietaria (la San Teodoro) che non ha lasciato nemmeno la soddisfazione di correrle dietro perché si è spenta con una liquidazione. Il grattacielo è diventato il patrimonio non invidiabile di una banca e di un fondo del Demanio. E’ finito all’asta e lì si trova ancora oggi, 11 anni e 23 banditure dopo. Il valore è stato segato – bando dopo bando – da 20 milioni fino a 3 milioni e mezzo. Ma non lo vuole nessuno, buttare giù il prezzo non serve a niente, l’unica sarebbe buttare giù tutto: il Magnifico Palazzo sta in piedi su una falda (la zona è la stessa delle vecchie terme digestive), i sotterranei sono pieni di infiltrazioni e i parcheggi si allagano. Nessuno ricorda se gli ascensori abbiano mai funzionato, forse uno sì. I finestroni delle facciate tutte a vetro mostrano il nulla che c’è dentro, open space sterminati, magazzini con metrature da piazzale. Porte e infissi sono trasandate. La Torre non sarà rimessa all’asta finché non sarà liberata dai duecento senzacasa e non sarà liberata finché i duecento non sapranno dove andare. Un giudice ha firmato un’ordinanza di sgombero. Ma nessuno avrà il coraggio di eseguirla: “Non saremmo in grado di affrontare la situazione, nessuna città media lo sarebbe” dice il sindaco Filippo Nogarin. “Sarebbe una tragedia sociale enorme” dice Giovanni Ceraolo, dell’Asia.
Gli sforzi del Comune, le case che non bastano mai
Le case popolari non bastano, non bastano mai. Vengono consegnati 80 alloggi all’anno. Le richieste sono un migliaio. “Da quando siamo arrivati a governare – dice Nogarin – abbiamo fermato l’emorragia iniziata molti anni fa che ha visto ridurre il patrimonio immobiliare del Comune che aveva oltre 12mila abitazioni. Con il nostro arrivo si sono fermate a 8mila e abbiamo voluto che non ci fossero più vendite del patrimonio immobiliare”. Il Comune ha rinegoziato i mutui, mettendo 300mila euro sulle ristrutturazioni degli alloggi e accelerare la graduatoria. Ha inventato un software – lo hanno chiamato Serpichino – per trovare gli abusivi, quelli che non hanno diritto all’alloggio. Ha perfino tentato di comprare il grattacielo, ma non ce l’ha fatta: troppo caro. “Stiamo affrontando il problema in modo molto strutturato – spiega il sindaco – ma è un problema complesso al quale ovviamente noi stiamo anche chiedendo aiuto a Regione e ministeri”. Serve più concretezza, aggiunge, perché da soli dobbiamo affrontare una situazione drammatica. Il Comune cerca da tempo edifici pubblici inutilizzati da ristrutturare: palestre, asl, caserme. “Ma da soli non ci si può fare”. “Ci vogliono alloggi, bisogna che tutti se lo mettano in testa. Ci vogliono alloggi” non smette di ripetere Ceraolo che a Livorno segue le 500 persone che hanno occupato.
Aspettare e combattere, Livorno si riscopre
Molte delle famiglie della Torre dei senzacasa sono in graduatoria e aspettano, e combattono. Livorno sta male e combatte, riscopre un pezzo della propria identità – violare una legge per un po’ di giustizia – che in questi ultimi anni (come assuefatta, arresa) sembrava aver smarrito. La ribellione alle regole se è per una buona causa: in una città che dietro di sé – più che il Pci nato al teatro San Marco, più un caso che un merito – rivede le barricate del ’49 (dell’Ottocento) per mandare gli austriaci a farsi benedire. Uno di quei livornesi, Enrico Bartelloni, bottaio, aveva 40 anni e diventò l’incubo dei soldati degli Asburgo. Lo chiamavano il Gatto perché saltava sui tetti e non lo vedevi più. Era ricercato, ma non solo non fuggì, non solo non si nascose, ma buttò la sua fierezza in faccia agli usurpatori. Chi sei, dove vai?, gli chiesero a un posto di controllo dei mercenari prezzolati dagli austriaci. “Sono Enrico Bartelloni e vo dove cazzo mi pare”, rispose lui. Sapeva che così sarebbe stato messo a morte. Ma se la battaglia è giusta, va combattuta.
“Io non andrò via da qui”, dice con italiano incerto Camelia che vive nel grattacielo con il marito e la figlia di 11 anni. Di lei dice: “Io non voglio che viva male la sua vita”. Prima cosa le regole, dicono. Nella Torre, nella speranza che si accende e si spegne ogni giorno, la comunità rinasce, il senso di solidarietà si rigenera. Fanno riunioni, per il Ramadan sono state fissate alle dieci di sera, il giovedì. Decidono cosa manca, cosa serve, cosa non va. “Più che altro le regole”. Primo, non sbattere la porta d’ingresso ma essere sicuri che è chiusa. Secondo, evitare gli schiamazzi. Terzo, non si spostano mobili dopo le dieci. Le fognature se le sono fatte da soli, chi ha potuto ha messo qualche spicciolo. “Trentatré metri” dice orgoglioso Gianfranco. Qualcun altro taglia l’erba. La pulizia delle scale, a turno. “Le regole, più che altro le regole”.