Luciana Alpi guarda fisso negli occhi, chiunque sia il suo interlocutore. Non è certo lei che deve abbassare gli occhi per la vergogna. “Questa vicenda non riguarda solo la nostra famiglia. Riguarda chiunque, nel nostro Paese, stia attendendo una verità”. Luciana non butta la spugna. Non aveva parlato molto da quando, lunedì, la Procura di Roma ha chiuso con una richiesta di archiviazione – per impossibilità di risalire al movente e agli autori – l’inchiesta sui fatti avvenuti 23 anni fa quando Ilaria, figlia di Luciana Alpi venne ammazzata. “Cosa dire? Sono disillusa e amareggiata, provata acciaccata e stanca, ma vado avanti. Sono anni – dice – che aspetto e spero che sentenze e giudici facciano emergere la verità, ma è tutto inutile perché dietro le quinte ci sono persone che cercano di occultare e nascondere. Non ricordo neppure le numerosi solenni promesse che ho ricevuto. Mi aspettavo che la gravità dei fatti denunciati dalla Procura di Perugia provocassero un piccolo terremoto istituzionale dal Quirinale in giù e anche la stampa desse rilievo. Nulla. Non è accaduto nulla”.
Resta un gigante la signora Alpi, donna minuta, se paragonata a quanti coprono la verità sul duplice assassinio avvenuto a Mogadiscio il 20 marzo 1994 in cui morirono Ilaria Alpi, giornalista del Tg3 e il collega Miran Hrovatin. L’occasione di ascoltare questa donna è la presentazione nazionale del suo libro Esecuzione con depistaggi di Stato di Kaos Edizioni – dedicato a Giorgio Alpi – che si è svolta a Roma alla Federazione Nazionale della Stampa. Un testo che oggi è solo un nuovo capitolo di una storia ancora tutta da svelare, anche se è trascorso più di un ventennio. Presenti, tra gli altri, i vertici FNSI Raffaele Lorusso e Giuseppe Giulietti, il segretario dell’Usigrai, il deputato Walter Verini, la presidente e la portavoce dell’associazione Articolo21, i giornalisti Rai Chiara Cazzaniga e Fabrizio Feo oltre a Giovanni D’Amati, legale della famiglia Alpi.
IL LIBRO
Il senso di questa pubblicazione scritta da Luciana Alpi è racchiuso in una frase sintetica e diretta dell’autrice, lo sguardo fisso negli occhi di chi guardava fingendo di non vedere: “A futura memoria”. Un ennesimo richiamo al dovere e alle coscienze di quanti occultano la verità, trincerandosi dietro silenzi che continuavano a coprire i mandanti del duplice assassinio. Luciana Alpi dice “noi” parlando come se il marito Giorgio fosse ancora accanto a lei, come sempre, da quando questa coppia di genitori ha iniziato il calvario verso una verità ancora del tutto sepolta. Il libro, seguito naturale del precedente dal titolo L’Esecuzione, in cui sono illustrati i moventi più probabili del duplice assassinio, da ricercarsi nei traffici di armi, di rifiuti tossici e mala-cooperazione su cui stavano lavorando i due professionisti. Esecuzione con depistaggi di Stato contiene la recente sentenza di assoluzione dell’unico indagato Omar Hassan Hashi che i Giudici di Perugia hanno definito unicamente un “capro espiatorio”.
COME PROSEGUIRE DOPO L’ARCHIVIAZIONE
Nelle conclusioni delle 80 cartelle di archiviazione Roma afferma: “La Procura di Roma è assolutamente consapevole di quanto sia deludente il fatto che dopo oltre 20 anni di indagini, di processi e accertamenti della Commissione parlamentare di inchiesta non abbiano consentito di fare alcun modo luce sui responsabili della morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. E tuttavia ritiene che debba essere richiesta l’archiviazione del procedimento sia perché da un punto di vista formale, sono già scaduti i termini delle indagini per il reato di omicidio sia – e soprattutto – perché non vi è stato alcuna nuova ed ulteriore indagine che appaia idonea a conseguire risultati positivi né in relazione al delitto più grave né in ordine agli altri ipotizzati”.
Nel testo inoltre viene sottolineato come abbia avuto rilievo anche la situazione politica – di allora e di oggi – della Somalia. Condizioni negative che hanno determinato e determinano tuttora la sostanziale impossibilità di raggiungere alcun risultato positivo. Infine si legge di “la totale inaffidabilità delle dichiarazioni rese in qualunque veste processuale, da cittadini somali anche se trasferiti all’estero”.
Tecnicamente ora sarà necessario – spiega Giovanni D’Amati – “indicare un oggetto dell’investigazione suppletiva e i relativi elementi di prova”. In casi come questi non è infatti sufficiente porsi solo in disaccordo con la richiesta di archiviazione ma motivarla sotto una diversa prospettiva. Trovare nuovi elementi di prova è un lavoro non certo facile, considerando quanto è già stato fatto da Domenico D’Amati che ha accompagnato i coniugi Alpi in una battaglia in solitaria combattuta sin dall’inizio di questa storia contraddistinta dalla parola “depistaggio”, reato a tutti gli effetti.
“Pignatone in occasione di un precedente incontro ci aveva annunciato l’apertura di un nuovo secondo fascicolo di indagine diventato poi oggetto di questa archiviazione anche perché i contenuti erano oggetto di prescrizione” dettaglia D’Amati. “Noi speravamo che il lavoro svolto a Perugia diventasse un nuovo filone. Noi stiamo valutando comunque l’opportunità di presentare opposizione”. Anche perché. dice Luciana “ci sono elementi nuovi nel filone d’inchiesta di Perugia che Roma non può non considerare”.
Presenti in sala anche i rappresentanti di associazioni che portano il nome di Ilaria Alpi, a loro Giulietti della FNSI insieme ad Articolo21 propone di costruire una rete che impedisca “l’archiviazione nelle coscienze di questa vicenda che interessa tutti. Perché non è solo un caso privato”. Importante potrebbe essere anche la posizione della struttura Rai, “non solo per realizzare servizi sulla intitolazione di una scuola o di una strada dedicate a Ilaria Alpi” commenta il giornalista Rai Fabrizio Feo che ha seguito il processo di Perugia. Negli atti desecretati ci sono molti accadimenti e diverse figure con responsabilità precise che non vanno tralasciati.
STRALCI DELLA SENTENZA DI PERUGIA: TESTIMONIANZE CONTRADDITTORIE, INATTENDIBILI E PLAUSIBILMENTE FALSE
L’ultima sentenza della Corte di Perugia ha ribadito anzitutto che la precedente condanna di Hashi Omar Hassan a 26 anni di reclusione si fondò sulla deposizione “contraddittoria, inattendibile e presumibilmente falsa” resa dal teste somalo Ali Ahmed Rade detto Gelle alla Digos e alla Procura della Repubblica di Roma. La Corte ha quindi constatato che il Gelle aveva mentito sia quando disse all’Autorità Giudiziaria e alla Polizia italiana di aver visto Hashi sul luogo dell’omicidio, mentre egli era addirittura fuori Mogadiscio, sia quando riferì di avere avuto in seguito un colloquio con Hashi nel corso del quale costui avrebbe rivelato le modalità e le ragioni dell’attacco armato. Ed invece dopo il fatto tra Hashi e Gelle non vi fu alcun incontro. Ne è conseguito il proscioglimento di Hashi Omar Hassan, ma ciò non pone termine alla vicenda iniziata nel 1992. Infatti la Corte di Appello di Perugia ha anche accertato che la falsa ricostruzione degli avvenimenti recitata da Gelle davanti alla Corte di Roma gli era stata suggerita da italiani, soffermandosi sui rapporti avuti da Gelle con l’ambasciatore italiano Cassini il cui ruolo “ambiguo – anche se in buona fede – era stato quantomeno strumentalizzato da cittadini somali”. La Corte d’Appello di Perugia ha altresì definito “ondivaghe” le dichiarazioni di un altro testimone, Sid Abdi, l’autista di Ilaria e Miran, in seguito deceduto.