Cinema

Venezia 74, Jim Carrey commuove nel documentario su di lui, Andy Kauffman (e Tony Clifton). “Recito perché mi affascina vedere scomparire me stesso”

Un Carrey inatteso, quello che sbarca al Lido, chiodo in pelle e thermos per sorseggiare una bibita in mezzo a bottigliette di plastica tutte uguali. “Nella mia carriera ho voluto distruggere Hollywood, non volevo farne parte. Volevo prendere in giro persone dal grande ego, i leader, l’atteggiamento alla Clint Eastwood"

di Davide Turrini

“Recito perché mi affascina l’idea di scomparire”. Parola di Jim Carrey. Uno dei più ingombranti e invadenti comici statunitensi di fine secolo che si confessa, a cuore aperto, come in una seduta di psicanalisi, davanti alla videocamera di Chris Smith, regista di Jim & Andy: the Great Beyond – the story of Jim Carrey & Andy Kaufman with a very special, contractually obligated mention of Tony Clifton, Fuori Concorso a Venezia 74. Titolo chilometrico per far stare dentro al film almeno tre delle personalità del 55enne attore canadese durante le riprese di Man on the Moon.

Film di oramai quasi vent’anni fa dove Carrey interpreta uno dei più anarchici, poetici ed autentici comici americani del novecento come Andy Kauffman. Un tizio che aveva fatto del sarcasmo irriverente, del camuffarsi e dell’imitare, senza concedere troppi dettagli su chi e cosa fosse veramente lui come persona, un marchio di fabbrica. E per chi conosce la sua storia finita tragicamente a 35 anni per un tumore, e ha visto lo splendido film di Milos Forman del 1999, sa che non c’era Andy senza Tony Clifton, maschera duplice e infinita, di un crooner strafottente, maleducato e panzuto che talvolta appariva negli show al posto del già folle Kauffman. Già sapevamo del ciclone Carrey sul set, ma qui, in questo documentario, scopriamo come Jim avesse completamente fuso la propria identità con quella di Andy e Tony.

Un’immersione totale nel personaggio che non è mai burletta, ma esilarante dinamicità nel travalicare regole e orari del set. Vediamo così Carrey arrivare nella roulett trucco o sul set di Man on the moon con il viso coperto da un sacco di carta per la frutta, esprimersi già con la voce di uno dei personaggi, in mezzo ad attoniti e divertiti Danny De Vito e Paul Giamatti, come ad uno sconfortato Forman, o perfino davanti allo studio di Spielberg per urlargli che gli squali di Jaws “sono tutti finti”. Ma è in questa commistione tra esilaranti e delicati materiali d’archivio, e un’intervista recente a Carrey con una lunga barba ingrigita, che il documentario di Smith assurge a biopic assoluto dell’attore canadese.

Il senso del suo lavoro, la sua spiritualità, il suo annientarsi per ritrovarsi definitivamente nei panni di un altro, sono i tasselli di una visione tragica e straordinariamente comica che trascina anche i tentennanti fan del Carrey prima maniera (Scemo e più Scemo, The Mask, ecc) rispetto al sublime interprete di Man on the moon e del Truman Show di Peter Weir. “Il vero autore di questo documentario è Andy Kauffman”, scherza divertito Carrey in conferenza stampa a Venezia. È non ha tutti i torti. Perché la vertigine che si prova seguendo il film di Smith è proprio quella di perdersi tra Jim, Andy e Tony, come fossimo di fronte ad un lungo ed ennesimo sketch del compianto Kauffman. “In me, come in voi, non c’è un io, un sé, un ego, bensì un’energia, un insieme di idee che si fondono, ma che vengono etichettate sotto il retaggio culturale dei luoghi in cui viviamo singolarmente. Sono braccialetti che ci mettono al polso, ancore per barche che non esistono. Ma noi non siamo nulla di tutto questo”. Un Carrey inatteso, quello che sbarca al Lido, chiodo in pelle e thermos per sorseggiare una bibita in mezzo a bottigliette di plastica tutte uguali. “Nella mia carriera ho voluto distruggere Hollywood, non volevo farne parte. Volevo prendere in giro persone dal grande ego, i leader, l’atteggiamento alla Clint Eastwood. E sappiate che l’onestà è difficile nel paese delle maschere”.

Venezia 74, Jim Carrey commuove nel documentario su di lui, Andy Kauffman (e Tony Clifton). “Recito perché mi affascina vedere scomparire me stesso”
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