Il virus Sars-CoV-2 lascia nel nostro sistema immunitario un segno più forte e duraturo del previsto. Infatti, la maggior parte dei malati che hanno avuto una forma lieve o moderata di Covid-19 mantiene per almeno cinque mesi una forte risposta degli anticorpi capaci di neutralizzare il virus. Sono le conclusioni confortanti di uno studio condotto dalla Icahn School of Medicine del Mount Sinai a New York, città duramente colpita dall’epidemia. I risultati, pubblicati sulla rivista Science, suggeriscono che le probabilità di reinfezione sono molto basse e, nel caso in cui si verifichi, l’infezione sarebbe molto indebolita. Si tratta di una buonissima notizia, che arriva dopo la pubblicazione di uno studio britannico, su meno di 100 pazienti, che invece aveva rivelato una riduzione di oltre il 26 per cento degli anticorpi in tre mesi. “Sebbene ci siano alcuni report che affermano che gli anticorpi contro questo virus scompaiono rapidamente, noi abbiamo scoperto esattamente il contrario”, sottolinea Florian Krammer, autore senior dello studio. “Più del 90 per cento delle persone lievemente o moderatamente malate producono una risposta anticorpale abbastanza forte da neutralizzare il virus e la risposta viene mantenuta per molti mesi”, aggiunge.

Lo studio americano ha esaminato i dati di oltre 30mila persone, un campione molto corposo, sottoposte a screening presso il Mount Sinai Health System tra marzo 2020 e ottobre 2020. Il test per la ricerca di anticorpi utilizzato si chiama ELISA (enzyme-linked immunosorbent assay, saggio immuno-assorbente legato ad un enzima), che va a caccia degli anticorpi che si legano alla proteina “spike” utilizzata dal virus per entrare e infettare le cellule umane. Questo test è in grado anche di misurare il livello degli anticorpi e nello studio americano ha permesso di scoprire che più del 90 per cento dei sopravvissuti al coronavirus mostra livelli di anticorpi contro “spike” da moderati ad alti. Successivamente, il team americano ha richiamato 121 donatori di plasma, rilevando in questo modo un livello stabile di anticorpi per circa 5 mesi. Il prossimo passo sarà seguire queste stesse persone per un intervallo di tempo più lungo.

Altra scoperta interessante effettuata dagli scienziati americani è che c’è stato un aumento dei livelli di anticorpi tra le persone che prima presentavano livelli bassi o moderati. Questo, secondo gli studiosi, potrebbe spiegare i risultati dello studio britannico, secondo il quale il 6,6 per cento di coloro che hanno mostrato una risposta anticorpale al virus a giugno è poi arrivata al 4,4 per cento a settembre. Secondo gli scienziati, i casi lievi avrebbero risposte anticorpali che richiedono più tempo per montare. In pratica, quelli misurati nello studio britannico potrebbero essere gli anticorpi prodotti dalle cellule che agiscono come “primi soccorritori” contro il virus invasore, la cui forza diminuisce con il tempo. “I livelli sostenuti di anticorpi che abbiamo successivamente osservato sono probabilmente prodotti da plasmacellule a lunga vita presenti nel midollo osseo”, conferma Ania Wajnberg, altra autrice dello studio. Secondo la scienziata, saranno necessarie ulteriori ricerche su intervalli di tempo più lunghi e su popolazioni eterogenee. “Crediamo che sia imperativo – concludono gli studiosi – iniziare a trovare risposte sul legame tra la protezione immunitaria e l’infezione da Sars-CoV-2. Informazioni dettagliate e puntuali potrebbero aiutare i decisori ad adottare le misure più adeguate per contrastare la pandemia”.

Per il momento quest’ultimo studio di Science rappresenta una bella boccata di ottimismo. “Si tratta di una conferma estremamente importante di risultati simili ottenuti da altri gruppi in casistiche più piccole”, commenta su Facebook Guido Silvestri, patologo all’Emory University di Atlanta. “Soprattutto, lo studio consiste con l’osservazione che re-infezioni con Sars-CoV-2 sono molto rare e supporta l’ipotesi secondo cui si stia formando una robusta immunità di gregge verso il virus nelle aree più colpite dalla prima ondata di pandemia”.

L’abstract dello studio su Science

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