Negli ultimi giorni si è riacceso il dibattito sulla cosiddetta tv del dolore.

Prima l’anniversario di Vermicino, ritenuto l’inizio della tendenza a spettacolarizzare gli eventi più tragici portando sulla scena le vittime, poi le immagini terribili dell’incidente al calciatore Eriksen che i compagni di squadra hanno protetto dall’occhio indiscreto della telecamera ma che è tuttavia diventato una sorta di morte (miracolosamente scampata) in diretta.

Ecco, se qualcuno volesse capire come si può rappresentare una vicenda dolorosissima senza cadere in nessuno dei pericoli che sempre si insinuano in queste situazioni (retorica, voyeurismo, cinismo) potrebbe affidarsi a un docufilm trasmesso ieri sera da Rai2, una rete che non brilla per la qualità della sua offerta ma che di tanto in tanto presunta guizzi di originalità, soprattutto in quel territorio ingiustamente dimenticato che è la seconda serata. Il docufilm in questione è una prova che rasenta l’impossibile.

E’ la storia personale, professionale, piena di gioie e di successi, di turbamenti e di dolori di Alessandra Appiano, scrittrice di fama, autrice e opinionista in vari programmi televisiva dove risplendeva (non vedo perché non dirlo) anche la sua bellezza, improvvisamente scomparsa tre anni fa.

A raccontare questa storia sono stati Nanni Delbecchi, marito di Alessandra, e Vito Oliva, l’amico che gliel’aveva fatta conoscere. E tanto per evitare equivoci, Alessandra era anche per me un’amica, non di “salvataggio” ma – diciamo – soprattutto di vacanze marine, nel senso che ci incontravamo con i rispettivi coniugi e altri amici nei soggiorni estivi tra Liguria occidentale e Costa azzurra. Ma, detto questo per chiarezza professionale, il discorso sul docufilm può proseguire senza indugi.

La scelta felice degli autori nel realizzare un lavoro così difficile è stata a livello drammaturgico quella autobiografica, l’idea di far parlare Alessandra stessa, affidando le sue parole alla bella voce di Lella Costa. Brani di diario, di libri, di articoli, di interviste di Alessandra, interventi in programmi televisivi, in manifestazioni e attività di volontariato si alternano così a testimonianze di amiche, amici, colleghi, alle citazione dei testi degli autori e soprattutto autrici più amate, alle immagini reali o metaforiche dei luoghi del suo percorso esistenziale. In questa vita spumeggiante, divertente, attivissima, gratificata da successi professionali e riconoscimenti (tra cui un Ambrogino d’oro) si fa strada pian piano il tarlo della malinconia, del disagio, di un male oscuro, della depressione.

Ma questa svolta, di cui sono presenti varie testimonianze, si realizza nel docufilm senza i colpi di scena, i traumi, le allusioni misteriose che sono tipiche di questo genere di racconti televisivi, avviene con pacatezza, quasi con dolcezza: l’opposto della cosiddetta tv del dolore.

Questa armonia narrativa che non spezza in due il ritratto di Alessandra si manifesta poi anche su un altro piano. Anche in questo caso senza traumi, senza bruschi passaggi, senza gridare il docufilm si trasforma: da biografia, ricordo affettuoso diventa cinema civile, lavoro di denuncia o meglio di ammonimento, affinché la società e le istituzioni evitino le superficialità e le trascuratezze che si sono manifestate nella cura della malattia di Alessandra. Oltre alle amiche, il compito del “salvataggio” riguarda anche chi ne ha responsabilità pubbliche, come dimostra la vicenda di Alessandra, la cui scomparsa (ci dicono le frasi finali scolpite in sovrimpressione) non è solo un grande dolore ma anche una grande ingiustizia.

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