Il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale ha depositato il ricorso in appello per chiedere di ribaltare la sentenza con cui il tribunale di Milano lo scorso 17 marzo ha assolto “perché il fatto non sussiste” tutti gli imputati per il caso Eni/Shell Nigeria, tra cui l’ad Claudio Descalzi. Anche la parte civile, il governo nigeriano, rappresentato dall’avvocato Lucio Lucia ha presentato, sempre oggi, l’atto di impugnazione. Secondo De Pasquale, i giudici hanno ignorato la “complessità” di una “grande corruzione” e hanno analizzato la “vicenda come se fosse una storia bagatellare“. Nell’impugnazione, l’aggiunto non risparmia pesanti critiche alle motivazioni del collegio, presieduto da Marco Tremolada, che altrettanto duramente aveva cancellato l’impianto accusatorio. E definisce gli “argomenti del Tribunale veramente esili” e “illogici“, parlando anche di “gravi svalutazioni” delle prove da parte dei giudici.

Con il ricorso, depositato a ridosso della scadenza dei termini, il procuratore aggiunto ha chiesto alla corte d’appello di ‘riformare’ la sentenza con cui la settima sezione penale del Tribunale, al termine di un processo durato tre anni e con colpi di scena e tensioni che hanno determinato una frattura profonda tra giudici e pm, ha mandato assolti i 15 imputati con la formula “perché il fatto non sussiste”. Per il collegio presieduto da Tremolada non è stata raggiunta la prova certa della presunta corruzione per ottenere la concessione dei diritti di esplorazione del giacimento Opl245.

Per De Pasquale “vengono ignorate” dai giudici “le sfumature dei comportamenti e la complessità dei rapporti, soprattutto in una trattativa corruttiva in cui ci sono tanti soldi sul tavolo, tanti ‘squali che girano intorno’ e comportamenti improntati a completo tatticismo“. Come si legge nell’atto d’appello di 123 pagine, “la grande corruzione è una partita in cui tutti i ‘players’ in campo vogliono ottenere il massimo risultato e molto spesso le diverse esigenze possono non essere del tutto combacianti“. Tuttavia, si legge ancora, “il Tribunale – scrive il pm – dà mostra di ignorare questa complessità e analizza la vicenda come se fosse una storia bagatellare”. Per De Pasquale, che ha portato a processo tra gli altri l’ad Eni Claudio Descalzi e il suo predecessore Paolo Scaroni (assolti come gli altri 13 imputati, società comprese), sul giacimento petrolifero Opl245 ci “fu corruzione”, una presunta maxi tangente da oltre 1 miliardo di dollari, “quel genere di corruzione di cui la Convenzione Onu sulla Corruzione ricorda nel Preambolo la devastante pericolosità“. E il pm ricostruisce quelle che sono, a suo dire, una serie di “gravi svalutazioni delle prove documentali” nelle motivazioni della sentenza, che hanno “nella sostanza spazzato via dal materiale usato per la decisione evidenze documentali di grande importanza ai fini dell’affermazione della responsabilità degli imputati”. Alla fine, osserva ancora De Pasquale, i giudici propongono “come ragionamento indiziario alternativo, che vi sia stata corruzione, ma tutta nigeriana“, senza quindi responsabilità per gli imputati.

Anche la parte civile, nel suo atto di impugnazione, ha chiesto la condanna degli imputati alle pene di giustizia, il risarcimento del danno da liquidarsi in un processo civile e una provvisionale pari a 1 miliardo e 92 milioni di dollari, importo della presunta tangente che per l’accusa sarebbe stata versata da Eni e Shell per finire nelle tasche dei politici nigeriani con ipotizzate retrocessioni ad alcuni manager e mediatori sia italiani che stranieri. La vicenda della Nigeria è una di quelle, assieme al caso dei verbali di Piero Amara, al centro della bufera che sta scuotendo non solo il palazzo di giustizia milanese ma l’intera magistratura italiana, con inchieste aperte, tra l’altro, dalla Procura di Brescia, dal Csm e anche dal ministero della Giustizia.

Eni “prende atto della decisione della Procura di Milano e della parte civile Repubblica della Nigeria di presentare appello contro l’assoluzione con formula piena pronunciata dal Tribunale di Milano il 17 marzo 2021”. E, “in attesa di leggere i motivi d’appello, conferma la propria totale estraneità rispetto ai fatti contestati e ripone la massima fiducia che la magistratura giudicante in sede di appello possa rapidamente confermare le conclusioni raggiunte in primo grado di giudizio. Fatti, peraltro, oggetto di accertamento definitivo in secondo grado in altro procedimento”.

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