Salvatore Silipo, la vittima

Un omicidio in pieno giorno, con un colpo alla testa sparato da una 44 Magnum e con l’ombra della ‘ndrangheta che lo avvolge. A morire in provincia di Reggio Emilia nel primo pomeriggio di sabato è stato Salvatore Silipo, 29 anni, residente nel comune di Cadelbosco Sopra. Gli hanno sparato all’interno dell’autofficina Dante Gomme nella quale aveva lavorato fino a pochi giorni prima. Il nome Dante deriva dal titolare di 70 anni, Dante Sestito, ora accusato di omicidio, ricettazione e detenzione illegale di arma da fuoco. Con lui, sul luogo della sparatoria, i carabinieri di Guastalla hanno trovato anche il figlio Antonio ed hanno portato entrambi in caserma per gli interrogatori. Salvatore è stato ucciso con una Smith & Wesson 44 Magnum risultata rubata, presumibilmente dopo essere stato costretto ad inginocchiarsi. Una esecuzione, dunque, avvenuta secondo le prime ricostruzioni davanti al fratello di Salvatore, Francesco Silipo e al cugino Piero Mendicino. I due sarebbero riusciti a scappare e Francesco avrebbe incrociato poco lontano due carabinieri che hanno fatto irruzione nell’officina e hanno trovato Dante con la pistola ancora in mano.

Sono due cognomi pesanti quelli dei Silipo e dei Sestito, che rimandano alle indagini e ai processi di ‘ndrangheta e sulla criminalità organizzata degli ultimi anni in Emilia Romagna. La stessa officina del gommista, oggi chiamata Dante Store, ha una storia “particolare”. Raggiunta da colpi di pistola in passato, è considerata dagli inquirenti una ditta utilizzata per l’emissione di false fatture e la realizzazione di illeciti fiscali. Emerge nel processo Billions, appena iniziato a Reggio Emilia davanti al giudice Andrea Rat, che vede richieste di rinvio a giudizio per 193 indagati.

Sotto accusa è una organizzazione criminale operativa in mezza Italia, tra i cui dieci capi figura proprio Antonio Sestito, il figlio di Dante presente sabato sul luogo dell’omicidio. In soli due anni, tra il 2014 e il 2015, Dante Gomme aveva ricevuto false fatture per mezzo milione di euro relativi all’acquisto di 3mila penumatici inesistenti. Per quella ed altre frodi fiscali la procura della Repubblica di Reggio ha chiesto le misure cautelari per Antonio Sestito, che si trovava sul luogo del delitto al momento della sparatoria sebbene ristretto agli arresti domiciliari. In una intercettazione agli atti dell’inchiesta, Antonio riceve la telefonata di un tale Michele che ha contratto con lui un debito e che disperato gli dice: “E se non ti pago che fai, mi vieni a sparare Anto’? Mi mandi qualche tuo amico come Turrà?”. Il riferimento è a Roberto Turrà, condannato in via definitiva in Aemilia come appartenente alla cosca Grande Aracri/Sarcone.

L’arma del delitto

Anche la vittima, Salvatore Silipo, aveva precedenti penali. L’uomo era finito agli arresti nell’aprile del 2020 quando i carabinieri avevano trovato nel garage della sua abitazione a Santa Vittoria – una frazione di Gualtieri – un laboratorio per il taglio della cocaina, sequestrando due etti e mezzo di droga e materiali per il confezionamento delle dosi. Della sua famiglia cinque persone sono state rinviate a giudizio nel maxi processo Aemilia alla ‘ndrangheta emiliana e tutte condannate a pene pesanti, ad esclusione di Floriana Silipo assolta in Appello. Tra i condannati anche un Salvatore Silipo omonimo della vittima, di cui era cugino.

Ma c’è un altro elemento preoccupante che collega la brutale esecuzione di sabato alle vicende della cosca originaria di Cutro. Salvatore Silipo aveva due figli piccoli: uno di due anni e il secondo nato da pochi giorni. La madre si chiama Pina Cortese ed è la figlia poco più che ventenne del collaboratore di giustizia Angelo Salvatore Cortese. Ex componente del gruppo armato della ‘ndrangheta che rispondeva a Nicolino Grande Aracri, dal 2008 Cortese rappresenta una spina nel fianco della cosca e per questo è stato minacciato più volte di morte assieme ai membri della sua famiglia. Lo stesso Nicolino Mano di gomma era arrabbiatissimo e voleva uccidere sua madre, mentre l’altro “pentito” Antonio Valerio racconta che anche il capo emiliano Nicolino Sarcone, assieme ai suoi fratelli e in accordo con Alfonso Diletto, aveva deciso di eliminarlo.

Cortese e Valerio ancora oggi sono decisivi con le loro ricostruzioni nei processi alla ‘ndrangheta cutrese, come dimostrano i quattro ergastoli in appello sentenziati dalla Corte di Bologna per gli omicidi commessi a Reggio Emilia nel 1992. Uccidere Salvatore Silipo significa dunque anche uccidere il genero di Angelo Salvatore Cortese; significa, per chi resta fedele alla famiglia di ‘ndrangheta, uccidere un parente stretto di un traditore.

Le indagini sono ora coordinate dal sostituto procuratore della Procura di Reggio Emilia Piera Cristina Giannusa, che cercherà di chiarire la dinamica dell’omicidio e i motivi che hanno spinto i membri delle due famiglie ad incontrarsi all’interno del capannone chiuso al pubblico. Intanto i social riportano i commenti all’accaduto e assieme al dolore di parenti ed amici della famiglia di Salvatore Silipo si smuovono anche la rabbia e il desiderio di vendetta. Scrive su facebook una persona che si firma con il cognome dei Ciampà, la storica famiglia di ‘ndrangheta insediata in corso Nazionale a Cutro: “Che bastardi di merda. Uccidere un ragazzo e papà di due bambini. La stessa fine devono fare loro”.

Tornano alla mente le parole profetiche di Antonio Valerio pronunciate in aula nel 2018 a conclusione del processo Aemilia: “Altri ‘ndranghetisti fuori si stanno riorganizzando, con mezzi e metodi diversi da quelli di oggi. Non illudetevi. A Reggio Emilia non è finito niente. Non è – finito – niente!”.

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