L’annuncio di Putin dell’operazione “militare speciale” contro l’Ucraina rivela la natura reale dell’arrogante messaggio lanciato dal Cremlino al resto del mondo: l’inizio cioè dell’invasione russa nei confronti del suo vicino occidentale. Nel cuore dell’Europa. Un’invasione meticolosa, massiccia, rapida. Nel primo pomeriggio di guerra, i russi hanno occupato Chernobyl. Luogo tristemente simbolico per gli ucraini e per noi tutti, dove l’insipienza sovietica causò la più grossa catastrofe nucleare. Che fu pagata soprattutto dagli ucraini. Ora le truppe di Putin raggiungeranno molto presto Kiev.

Da anni Putin aveva preparato – ed annunciato nei suoi prolissi discorsi – questa mossa. Per esempio, quando nel 2014 scrisse (e disse) che “Kiev è la madre delle città russe”. Lo fece alla vigilia dell’invasione in Crimea. Otto anni dopo, trascorsi a rafforzare l’esercito, ad aumentare le spese militari e a diversificare la sua presenza strategica con le flotte nel mar Nero e nel mediterraneo (compreso davanti alle coste calabresi e siciliane), con i mercenari in Siria, Libia e Sahel, con l’aviazione spesso mandata a violare gli spazi aerei dei paesi baltici, della Scandinavia e persino della Gran Bretagna, attua il piano contro l’Ucraina, pigliando a pretesto l’esistenza di elementi paramilitari di matrice neonazista (come il battaglione Azov) schierati contro i secessionisti, accusando il governo ucraino di foraggiarlo. In realtà, chi ha cercato di scoprire le origini dei finanziamenti che hanno pagato armi e uomini di questa formazione è stata liquidato.

Paradossalmente, una presenza più utile a Mosca che a Kiev.

Sta di fatto che pochi giorni fa Putin in un discorso lungo più di un’ora, non solo ha ribadito il concetto che l’Ucraina è la “madre” storica e culturale della Russia, ma che intende ridare al suo Paese il suo storico e naturale spazio vitale. Vuol essere lo zar di un terzo regime imperiale: l’invasione dell’Ucraina è il cardine di questo grande piano euroasiatico, base della dottrina geopolitica putiniana. Che si sviluppa abbinando guerra tradizionale, guerra ibrida, guerra informatica. Una guerra non lontana da casa nostra. Ma ai confini polacchi, a quelli delle piccole fiere repubbliche baltiche, non lontano dalla Germania, dai Paesi scandinavi, dalla Romania, dall’Ungheria, dalla Cechia, dalla Slovacchia, dall’Austria.

Guai a ignorare questa prossimità geografica. L’Europa Orientale è Europa. Cioè noi. Il conflitto scatenato da Putin – con la risibile scusa che la Nato sta brigando per far includere l’Ucraina nell’organizzazione, quando l’ipotesi di un eventuale ingresso nell’Alleanza atlantica è ritenuta inattuabile, e lo sarà per almeno altri dieci anni; allora i paesi baltici che ne fanno parte verrano invasi a loro volta? – ha innescato catastrofiche ripercussioni globali. Il conflitto, infatti, ha già provocato sensibili aumenti delle materie prime, del grano, per non parlare dello shock energetico. Chi pagherà di più saranno i Paesi poveri del mondo. L’Africa, per esempio, ha importato prodotti agricoli dalla Russia per 4 miliardi di dollari, soprattutto per le derrate del grano: in prima fila Egitto, Sudan, Nigeria, Tanzania, Algeria, Kenya, Sudafrica. Se le sanzioni colpiranno l’export russo, i prezzi saliranno alle stelle.

Il problema però non riguarda soltanto l’Africa. Riguarda pure l’Italietta. Il governo si è schierato con chi vuole punire severamente la Russia, applicando sanzioni – sulla carta – articolate e pesantissime. Ma ci sono forze politiche che invece propugnano una linea più morbida. Le stesse forze che hanno progressivamente incentivato le relazioni economiche e commerciali con la Russia e che hanno favorito la nostra dipendenza energetica, senza attivare lo sviluppo delle fonti alternative, perché avrebbero ridotto il flusso di gas dalla Gazprom, il braccio energetico del Cremlino. Ciò permette a Mosca di ricattarci ed imbarazza i suoi “amici” – da Berlusconi a Salvini, il quale ha già espresso la sua ostilità alle sanzioni.

Troppi sono infatti i legami commerciali, bancari e finanziari legano una certa imprenditoria padana (e non solo) alla Russia, testimoniata da istituzioni bilaterali lombarde (come l’associazione Lombardia-Russia), per esempio, attive nel promuovere scambi non solo commerciali: tre anni fa, per esempio, venne invitato a Milano Alexander Dugin, il teorico del sovranismo imperialistico russo nonché ideologo dell’Anti Unione Europea, alla presenza di dirigenti leghisti: posso confermarlo, poiché ero presente, dovevo intervistarlo. Dugin ha ideato la Quarta Teoria Politica, espressa in più volumi. “Opera indispensabile – mi disse – per tutte quelle forze locali che vogliono liberarsi dall’Unione Europea, ed apprendere nuovi strumenti teorici di lotta e resistenza”. Pochi sanno che anche Dugin fa parte del mondo Kgb (suo padre era una spia) come Putin. Inoltre ha rapporti con il controverso Gianluca Savoini (il faccendiere intercettato al Metropol moscovita in cui parla di strategie anti-Ue e di affari petroliferi…) e con CasaPound.

È la “quinta colonna” su cui conta molto il Cremlino per dividere l’opinione pubblica occidentale, in particolare quelle più vulnerabili, come l’italiana. Un fattore determinante è rappresentata dall’offensiva mediatica (siti, agenzie, media tv), attraverso la quale sono veicolate fake news e manipolazioni storiche. La propaganda politica punta sul fattore identitario-xenofobo-sovranista, adottata dalle destre europee che, non a caso, hanno spesso e volentieri espresso posizioni filorusse. Lo scopo è plateale: fomentare il distacco da Bruxelles. Suscitare il disordine per indebolire la democrazia e i diritti civili. Quanto questo lavorìo ai fianchi dell’Ue sia stato efficace, lo dimostrano le contrastanti reazioni all’attacco russo.

Infine, c’è un aspetto da non trascurare. Mosca agisce politicamente di concerto con Pechino. La mattina del 24 febbraio, con una tempestività niente affatto casuale, i cinesi hanno affermato che la presenza dei militari russi in Ucraina non si può classificare come invasione… mentre l’agenzia asia.nikkei.com ha denunciato la violazione dello spazio aereo di Taiwan da parte di nove cacciabombardieri cinesi. Azioni che mettono in difficoltà gli Stati Uniti, e certo non favorisce la tattica temporeggiatrice del presidente Biden. Conscio che una reazione militare in Ucraina avrebbe conseguenze incontrollabili. La scommessa su cui ha puntato Putin, noto appassionato di scacchi e poker.

In questo quadro sempre più drammatico va considerato lo schema offensivo degli attacchi informatici, ossia sabotaggi, spionaggio, sovversione. I vantaggi sono evidenti: attacchi rapidi e mirati, economici e semplici. Al contrario, difendersi dalle azioni ostili cibernetiche è sempre più costoso e complesso.

A Mosca mi capitò di visitare un’annuale fiera dell’elettronica, e di conoscere uno dei fratelli Kasperski, già allora noti per avere sviluppato software all’avanguardia. Fu lì che venni a sapere che Putin aveva dirottato ingenti fondi della Difesa per sviluppare strategie informatiche avanzatissime (era stupito dai progressi cinesi in questo campo, durante la sua visita nell’agosto del 2008 in occasione dei Giochi Olimpici estivi). Da quel momento gli attacchi cyber riconducibili a gruppi russi si intensificarono. La Direzione principale dell’intelligence militare russa (Gru), secondo i servizi occidentali e quelli israeliani, orchestrerebbe questi attacchi, ma in modo indiretto, per evitare coinvolgimenti (non escludo che lo stesso faccia la Cia…). Esiste una cronologia specifica (rintracciabile nei siti specializzati che lottano contro i malware indirizzati verso sistemi ed infrastrutture di una nazione “target”, cioè obiettivo).

Di recente, si sono intensificati gli attacchi all’Ucraina in modalità DDoS (Distributed Denial of Service). Secondo Mykhailo Fodorov, ministro ucraino per la Trasformazione digitale, diversi siti web governativi e bancari ucraini sono stati oggetto di attacchi cyber fa che li hanno mandati offline, impedendo così l’accesso agli utenti legittimi. Il sito socializzato NetBlocks lo ha confermato, rilevando gli attacchi dal 12 al 15 febbraio. L’Eset Research ha sottolineato che queste incursioni erano state precedute da “assaggi” fin dal 28 dicembre scorso. Già in un altro dicembre, quello del 2015, l’Ucraina aveva subito un violento e devastante attacco cibernetico che aveva preso di mira la regione occidentale Ivano-Frankivsk, colpendo i network industriali e lasciando per sei giorni 700mila persone senza energia elettrica.

Quando Putin attaccò la Georgia, la sua offensiva fu accompagnata da un attacco coordinato con gruppi di hacker sponsorizzati dalla Russia, almeno così venne ricostruita la dinamica in base agli algoritmi che ne furono l’unica traccia. In questi ultimi tempi, sei Paesi dell’Ue (Croazia, Estonia, Lituania, Olanda, Polonia e Romania) hanno offerto il supporto delle loro infrastrutture cyber per aiutare Kiev nel respingere questi attacchi. Le implicazioni internazionali ormai sono globali. La settimana scorsa, il National Cyber Security Center neozelandese ha emanato l’allerta (General Security Advisory) per prepararsi a fronteggiare incursioni cibernetiche e a gestire le inevitabili conseguenze. Lo stesso ha fatto l’Australia. Canada e Stati Uniti da tempo hanno dispiegato sofisticate misure per arginare offensive del genere. Oggi è la Francia a temerle, dopo il duro intervento di Macron contro Putin.

Intanto, l’offensiva russa miete vittime civili. E diffonde panico. A Kharkiv, primo vero obiettivo di Putin, grande città del nord est famosa per i suoi centri di ricerca, le due aziende avanzate e le università scientifiche (qui si elaborava la missilistica sovietica), la gente si rifugia nelle gallerie della metropolitana. Quasi tutte le città ucraine orientali sono state attaccate e bombardate. L’Occidente, per il momento, tergiversa, annunciando misure sanzionatorie che non turbano i sonni di Putin e dei “siloviki”gli uomini della forza, ossia militari, polizia, servizi segreti e guardie di frontiera – che lo affiancano. Gli oligarchi fedeli al Cremlino hanno i loro santuari finanziari e le loro occulte relazioni che li tengono al riparo dalla inevitabile crisi.

A farne le spese, oltre agli ucraini colpevoli di non volere la Russia in casa, saranno i russi, ai quali è stata somministrata l’ennesima razione di patriottismo e di etno nazionalismo. Tanto, credono, c’è la Cina che sopperirà alle esigenze russe. Ma non penso che lo farà gratis. Volendo guastare la festa a Putin e soci, basterebbe sequestrare i miliardi che da decenni vengono esportati dalla Russia in Occidente e nei paradisi fiscali, con le autorità che fanno finta di niente. E bloccare le fabbriche delle fake news.

In fondo, Putin ha vinto per ora la sua “santa” guerra contro l’eresia ucraina. Ma prima o poi, dovrà fare i conti con Pechino.

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