Aborto sempre più difficile. Se n’è accorta anche l’Europa

Ce lo chiede l’Europa. Stavolta è vero, anche se è una di quelle cose destinate a riempire le colonne dei giornali per un paio di giorni e poi tornare a essere un problema minoritario. Nel senso che riguarda una minoranza (fortunatamente) dell’universo femminile. “Le carenze che esistono nella fornitura di servizi di aborto in Italia rimangono irrisolte e le donne che cercano l’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza continuano a dover affrontare notevoli difficoltà, nonostante le disposizioni legislative in materia”: così recita il Comitato dei diritti sociali del Consiglio dell’Unione, che ieri ha pubblicato l’esito del reclamo presentato dalla Cgil nel 2013 circa le condizioni di lavoro dei medici non obiettori.
Il diritto alla salute e la dignità nel lavoro
Secondo il Comitato, che su questo punto si è espresso all’unanimità, l’Italia viola l’articolo 11 (il diritto alla salute) della Carta sociale europea. Esiste, poi, una violazione del diritto al lavoro (6 voti contro 5) e del diritto alla dignità dei lavoratori (7 contro 4). “Le strutture sanitarie – scrivono da Strasburgo – continuano a non adottare le misure necessarie al fine di compensare le carenze nella fornitura di servizi, a causa di problemi dovuti al personale che decide di invocare il diritto all’obiezione di coscienza. Queste situazioni possono comportare notevoli rischi per la salute e per il benessere delle donne”.
Già lo scorso anno il ministero italiano aveva fatto notare al Comitato che “gli aborti erano in forte calo e che l’obiezione non era un problema”. Affermazioni ripetute anche ieri dal ministro Lorenzin, alla luce però di numeri ufficiali che si riferiscono proprio all’anno di presentazione del reclamo, 2013 (dati definitivi) e al 2014 (dati preliminari). Per gli esperti di Strasburgo, però, il ministero “non ha fornito nessuna prova che contraddica quanto sostenuto dalla Cgil e non ha dimostrato che la discriminazione non sia diffusa”.
Statistiche in calo, ma solo quelle ufficiali
Per comprendere l’entità del problema, bisogna analizzare i dati nel loro complesso. Nel 2013 le interruzioni volontarie di gravidanza (Ivg) sono state 102.760 (fonte ministero della Salute; 100.342 invece secondo l’Istat). Nel 2014 hanno fatto ricorso all’aborto 97.535 donne (97.557 secondo l’Istat). Due anni fa, cioè, per la prima volta dall’entrata in vigore della legge 194 del 1978, si è scesi sotto la soglia delle centomila. Ma, a differenza di quanto sostiene il ministro Lorenzin, non è detto che questi numeri siano reali. “Se in un ospedale si fanno dieci aborti a settimana, ma ne vengono richiesti 14 – spiega la ginecologa Lisa Canitano dell’associazione ‘Vita di Donna’ – le statistiche riporteranno sempre 10. Ma quelle altre 4 donne che fine fanno?”. Probabilmente, se non hanno una rete socio-familiare intorno o se non hanno la possibilità economica di cambiare città o regione, troveranno una strada alternativa, spesso pericolosa e sempre fuori legge. Nel febbraio scorso, un decreto legislativo ha inasprito (fino a 10 mila euro) le pene pecuniarie per le donne che ricorrono all’aborto clandestino. Una misura che ha creato non poche polemiche, anche perché si scontra con un altro dato, molto più rilevante: in Italia il 70 per cento dei ginecologi delle strutture pubbliche (le uniche in cui, dice la 194, si può effettuare l’Ivg) è obiettore di coscienza. In alcune regioni, come il Molise, questa cifra raggiunge il 90 per cento.
Troppi signor No nessuna organizzazione
“In Molise i medici che praticano l’aborto sono due e fanno 400 interventi l’anno. Ma non è neanche questo il problema – spiega Silvio Viale, ginecologo radicale e vice capogruppo del Pd in Regione Piemonte –. In tutta Italia siamo circa 1.500 non obiettori, più che in Inghilterra. Ma siamo costretti dalla legge a operare negli ospedali pubblici, dove il servizio per le Ivg si limita a un paio di giorni a settimana. È chiaro che si crea un collo di bottiglia. Manca la volontà di trattare gli aborti come le colposcopie o i tumori: con un’equipe dedicata cinque giorni su cinque. In tutta Europa, poi, si ricorre alla pillola RU486, e lo si fa a livello ambulatoriale. Qui le donne dovrebbero rimanere ricoverate tre giorni: uno spreco di denaro pubblico e di tempo”.
La totale assenza della classe politica
Al di là dei proclami di ieri – alcune esponenti del Pd, di SI e del M5S – e di sporadici interventi nei consigli regionali, la verità è che il tema è talmente spinoso che nessun politico se ne vuole occupare. “Lo Stato si è ritirato dall’applicazione della legge – ancora Canitano – e tutto è affidato alle direzioni sanitarie. A Roma, per esempio, non siamo mai stati messi così male: i nuovi primari arrivano dalle Università cattoliche e spesso si portano dietro i loro medici”. “C’è un disinteresse ostile sia da destra che da sinistra”, conferma Viale. E gli stessi medici sono spesso in difficoltà: con un primario definito “confessionale” praticare le interruzioni di gravidanza equivale a non fare carriera. Non a caso l’associazione Luca Coscioni ha proposto anche la creazione di un albo pubblico degli obiettori: sarebbe un modo trasparente per assumersi le proprie (legittime) responsabilità.