Appaiono talvolta sui giornali notizie clamorose che sarebbero ancor più clamorose se in calce comparisse il nome di chi ha passato le carte al cronista, e perché. Per esempio in questi giorni va forte sui quotidiani l’informazione seguente: la Procura di Roma ha chiesto alla Gran Bretagna una rogatoria dell’egiziana Maha Abdel Rahman, docente di Social Sciences all’Università di Cambridge e tutor di Giulio Regeni nella ricerca che l’italiano stava conducendo al Cairo. Dagli articoli che ne riferiscono, risulta che la professoressa sia persona ambigua, legata ai Fratelli musulmani.
Avrebbe usato Regeni per un’attività informativa segreta o inconfessabile. In ogni caso finora si è sottratta alle domande della Procura di Roma, così negando all’inchiesta una parte significativa della verità. E Renzi fa eco: “Noi vogliamo con forza la verità su Giulio Regeni. La verità, solo quella. Per questo chiediamo da mesi chiarezza anche all’Università di Cambridge, come oggi fa il quotidiano Repubblica. Il team che seguiva Giulio sta nascondendo qualcosa?”. Proviamo a rispondere.
Secondo il Corriere della Sera la professoressa Rahman non milita nei Fratelli musulmani ma nella sinistra egiziana, probabilmente in uno di quei network resistenziali creati da egiziani della diaspora dopo il golpe (2013). È verosimile che l’impegno politico le abbia preso la mano quando indirizzava da Cambridge la ricerca di Giulio Regeni suggerendogli contatti e condotte. Di sicuro ha sottovalutato i rischi che Regeni correva, o che lei stessa gli faceva correre. Dopo l’assassinio è caduta in una crisi depressiva: non pare la reazione di una spietata rivoluzionaria, ancor meno di una spia. Perché l’anno scorso svicolò quando gli inquirenti italiani le chiesero di deporre? Presumibilmente per tre motivi: teme per la vita di parenti e amici al Cairo; non si fida di una Procura che dichiara rapporti di mutua collaborazione con i magistrati di Al-Sisi (nella realtà non è così, ma la professoressa non è tenuta a saperlo); è consigliata da Cambridge, che paventa una richiesta di risarcimento dalla famiglia Regeni.
Infine e soprattutto: il sospetto che vuole Regeni strumento inconsapevole di una cospirazione, o comunque di un’attività informativa funzionale a un trama per abbattere la dittatura, è tragicomico. Chiunque conosca un po’ l’Egitto sa che per far fuori Al-Sisi bisogna manovrare nel vertice militare, una vasca di pescecani pronti a divorarsi (il dittatore non si fida neppure dei suoi congiunti, uno dei quali, il capo di Stato maggiore Mahmoud Hegazy, è stato rimosso la settimana scorsa, appena tornato da un viaggio negli Usa). Certamente Regeni studiava un settore sensibilissimo della crisi egiziana, i sindacati indipendenti. Ma i suoi report non potevano aggiungere nulla a quanto già conoscevano i servizi segreti qatarini o turchi, legatissimi ai Fratelli musulmani, o britannici, che hanno una storica presenza in Egitto.
Dunque le reticenze della professoressa Abdel Rahman sono del tutto laterali rispetto ad un assassinio chiarissimo nei suoi tratti essenziali: Giulio Regeni è stato arrestato dagli apparati di sicurezza di Al-Sisi e non è uscito vivo dalle loro prigioni.
La Procura di Roma sarebbe già ora in grado di emettere qualche provvedimento, anche blando, contro poliziotti egiziani. Perché esita? Forse perché è l’ufficio giudiziario fisicamente più vicino al governo, quello tradizionalmente chiamato ad un ruolo improprio, caricarsi sulle spalle ‘preoccupazioni politiche’: Al-Sisi reagirebbe male se i pm italiani accusassero di fatto il suo regime; e l’eventualità spaventa il governo italiano, convinto che l’egiziano sia un interlocutore necessario.
Così necessario che in agosto Roma ha rimandato in Egitto l’ambasciatore, ufficialmente anche per seguire inesistenti indagini sull’omicidio. Però a quel punto bisognava esibire qualche risultato, e il Cairo non collaborava. Allora si è ricorsi ai trucchi di scena. Appena il governo ha avuto dalla Procura la richiesta di rogatoria per la professoressa Abdel Rahman, alcuni quotidiani hanno ricevuto le carte; incolpevoli cronisti giudiziari ne hanno scritto; e Renzi ha potuto lanciare il suo severo monito a Cambridge. Lo stesso Renzi non ha mai speso parole men che garbate verso il regime di Al-Sisi, sul quale in passato riversò lodi e professioni di amicizia. Qualcuno gli ricordi che anche nelle farse occorre rispettare il limite della decenza.