Dalla “vendetta” del 1980 alla Miami anti-castrista

Canti, balli, bandiere al vento, occhi pieni di lacrime, gioia e dolore. Fídel è morto. Stavolta è vero, non è la solita bufala, e loro sono in piazza a festeggiare. Pochi minuti dopo l’annuncio di Raul, centinaia di cubani si riversano sulle strade di Miami: profughi andati via subito dopo il trionfo della rivoluzione, anticastristi legati al vecchio regime di Batista. Ma non solo: altre centinaia di migliaia di persone sono arrivate negli Stati Uniti durante il periodo della Guerra fredda. L’esodo più massiccio avvenne nella prima metà degli anni 80 del secolo scorso. Da quasi due anni vivevo all’Avana come corrispondente de l’Unità. Ero arrivato quando i rapporti tra Cuba e Stati Uniti, dopo anni di tensioni, stavano vivendo una fase di timido disgelo. Alla Casa Bianca c’era Jimmy Carter e per la prima volta le diplomazie segrete avevano raggiunto un accordo: Castro aveva dato il via libera al ritorno in patria per centinaia di cubani che vivevano negli Usa. Potevano rientrare per un periodo di ferie, potevano riabbracciare i familiari. Un primo passo, poi, ci sarebbero stati quelli che dall’Avana avrebbero potuto ottenere il visto per andare a trovare i familiari negli Usa.
Un annuncio che aveva colto di sorpresa i cubani e irritato non poco non solo i più duri e puri del Partito comunista cubano. Quelli che avevano scelto di scappare in Florida erano sempre stati bollati come gusanos (vermi), perché Fídel aveva deciso di premiarli? Malumori che non avevano eco ufficiale, non ne trovavi traccia in giornali o tv controllati dal regime. Ma a rendere difficile la gestione di questo accordo non era solo l’aspetto politico.
A Cuba in quegli anni non c’era la fame che potevi vedere nei paesi del Centro e Sud America, il governo riusciva a garantire un importante sistema scolastico e una buona assistenza sanitaria. Il fiume di miliardi che arrivavano dall’Urss per mantenere quell’avamposto socialista a poche miglia di distanza dal nemico nordamericano, teneva in piedi un Paese comunque impoverito, seppur orgoglioso della rivoluzione che lo aveva affrancato dal colonialismo e dallo strapotere del potente vicino del Nord.
È in questa Cuba fiaccata da perenni sacrifici, dove era difficilissimo comprare un ventilatore, una radio, un televisore o anche solo un paio di pantaloni o una gonna, che irrompono gli ex castristi con le tasche piene di dollari.
Ricordo i negozi degli alberghi presi d’assalto, con i parenti degli esuli che affollavano per strada carichi come muli portando ogni tipo di elettrodomestico e beni “di lusso” normalmente destinati solo agli stranieri.
Una parte dei cubani riscopre così, a vent’anni dal trionfo della rivoluzione, il consumismo capitalista. Ma quelli che ne beneficiano sono soprattutto le famiglie meno legate al castrismo. La direttiva del partito però è chiara: l’apertura serve a Castro come carta da giocare sullo scacchiere internazionale. E i gusanos improvvisamente vengono ribattezzati mariposas (farfalle).
Timido disgelo con Washington e forte proiezione internazionale: nel settembre del ’79 all’Avana si tiene il vertice dei Paesi “non allineati” che proclamano Castro presidente del movimento: Cuba diventa crocevia di incontri e trattative internazionali. Ma dura poco. In dicembre le truppe dell’Armata Rossa intervengono in Afghanistan. Kabul è membro dei “Non Allineati” ma Castro, che ne è il presidente, si schiera con Mosca. I rapporti col potente vicino tornano burrascosi. I voli degli esuli s’interrompono. Così come la promessa per i cubani di ottenere i visti.
All’Avana c’è una tensione palpabile. A farne per primi le spese, ancora una volta, gli omosessuali. Tollerati, coccolati se inseriti in ruoli importanti (registi, scrittori, ballerini, musicisti) e allineati al regime, diventano il nemico nei momenti di difficoltà.
Ma la crisi scoppia a fine marzo: un’auto sfonda il cancello dell’ambasciata del Venezuela, i due cubani a bordo chiedono asilo politico; il giorno dopo altri 2 si rifugiano nella sede del Perù. Castro annuncia che da quel momento verrà tolta la protezione armata davanti alle due residenze. Poche ore dopo l’annuncio su Granma, l’ambasciata del Perù viene invasa da migliaia di cubani che chiedono di lasciare l’isola. Ci sono nuclei familiari che si frantumano: figli che i mariti strappano alle mogli e viceversa. Alla fine si contano 10 mila persone. Cubani di ogni età e estrazione sociale. Insospettabili sostenitori della rivoluzione. Ma per il regime, come recitano giornali e tv, sono solo lumpen, delinquenti e omosessuali antisociali. La tensione è alle stelle, i comitati rivoluzionari organizzano “manifestazioni di sdegno” sotto le case dei richiedenti asilo. È Carter che, dopo qualche settimana, apre le porte e oltre 100 mila persone lasciano Cuba dal porto di Mariel. Molti di loro forse l’altra sera sono scesi in piazza a Miami per festeggiare.