Chi pensa che tra i 140mila dirigenti pubblici italiani si nascondano anche molti mascalzoni ora ha una ragione in più per farlo. Dimostrando di avere un senso della propria reputazione pari a quello dello Sceriffo di Nottingham, il sindacato Unadis (Unione nazionale dei dirigenti dello Stato) sta facendo fuoco e fiamme per tenere nascosti i dati sui patrimoni dei mandarini ministeriali, dei segretari comunali e dei manager di agenzie e authority. Davanti alla riforma Madia che correttamente pretende la pubblicazione su internet di case, auto, barche e ogni altra proprietà detenuta dai dirigenti, il sindacato grida all’attentato alla privacy. Ricorre al tar del Lazio (che in un caso gli ha dato pure ragione), minaccia diffide e iniziative giudiziarie. Come se, nel secondo Paese più corrotto d’Europa, i contribuenti non avessero il diritto di sapere se lo stile di vita di chi occupa i gangli chiave della pubblica amministrazione sia compatibile o meno con la sua dichiarazione dei redditi. Le motivazioni dell’alzata di scudi, va detto subito, sono ridicole. “Cosa potrebbe accadere con la pubblicazione di tutti i dati e con i malintenzionati che potrebbero seguirci fino a casa e sapere ogni cosa della nostra vita?”, si è chiesta pensosa la segretaria dell’Unadis, Barbara Casagande durante un colloquio con la nostra collega Chiara Brusini.
Tralasciando ogni considerazione sulla possibilità dei malviventi di iniziare il pedinamento partendo dall’ufficio (dove siamo certi che gli associati al sindacato siano costantemente presenti, al contrario di altri furbetti del cartellino), il ragionamento fa un certo effetto. Perché è totalmente falso. Il modulo da compilare, messo a punto dall’Anac di Raffaele Cantone, prevede esplicitamente che non vengano pubblicati gli indirizzi degli immobili, ma solo il tipo e il loro valore. Il resto dei dati da mostrare in Rete vengono poi depurati da ogni elemento sensibile, come prevede la legge, dai responsabili della trasparenza presenti in ogni amministrazione. Detto in altre parole: i cittadini potranno sapere se il dirigente statale ha una Ferrari, non quale sia la sua targa. Oppure potranno scoprire se ha tre case e un castello, ma non dove si trovano.
Non abbiamo la minima idea di come finirà questa battaglia a colpi di carte bollate dell’Unadis. Sappiamo però che negli Usa e in molti paesi d’Europa la trasparenza dei patrimoni dei manager pubblici è una regola. E sappiamo pure che durante Mani Pulite l’unica reale soluzione proposta per contrastare e prevenire la dilagante corruzione italiana era la costituzione di un anagrafe patrimoniale dei dipendenti pubblici (politici compresi) e dei loro famigliari. Ovviamente non se ne fece niente. Venticinque anni dopo ciascun cittadino si può rendere conto da solo come è andata a finire.
Per questo sarebbe bello e giusto che le migliaia e migliaia di dirigenti statali onesti presenti nei nostri ministeri, all’Agenzia delle entrate, del demanio, delle dogane, nei comuni e nelle varie authority già da domani cominciassero a compilare la documentazione sui loro patrimoni.
Secondo la riforma le informazioni devono essere messe online entro il 30 aprile. L’Unadis, che consiglia a tutti loro di non farlo, va semplicemente mandato al quel paese. Dimostrando agli italiani che anche tra i burocrati c’è chi conosce il significato delle parole reputazione e onore.